8.8.19

Ricominciare dopo una delusione d’amore

Abbiamo visto nei due articoli precedenti come la chiusura di una relazione possa essere dura da affrontare sia per chi ha preso la decisionesia per chi l’ha subita. Anche quando la decisione viene presa concordemente resta da abituarsi all’assenza dell’altro e restano da riordinare pensieri, emozioni, ricordi, nuove consapevolezze e ridecisioni.

Fonte: https://www.cittanuova.it/ricominciare-delusione-damore/?ms=006&se=022 

Nulla viene per nuocere dicevamo. Occorrerebbe dunque poter imparare qualcosa da questa chiusura. E occorrerebbe farlo con quella sorta di imparzialità che le emozioni non sempre permettono. Una paziente ad esempio riportava con stupore come verso la fine della psicoterapia fosse riuscita ad attribuire all’ex partner non solo difetti ma anche pregi, cosa che in relazioni precedenti non aveva mai fatto avendo troppo bisogno di scaricare le colpe per affermare i suoi diritti e bisogni di cui lei stessa fino ad allora non aveva saputo prendersi cura.
I motivi per la chiusura e le modalità con cui la relazione si è svolta, nonché la maturità affettiva di entrambi, giocano un ruolo importante. Talvolta le relazioni si vivono e si chiudono in un clima di armonia, altre volte a danno di uno dei due e lì dove l’invettiva, la violenza, il sopruso, il misconoscimento dell’altro è stato grave, le ferite che esso lascia hanno bisogno di tempo e tanto amore per sé prima di lenire. Ed è importante prendersi tutto il tempo che serve e sviluppare o accrescere l’amore per sé. Questa è l’occasione propizia per ricominciare da sé!
In questa fase, che subentra dopo il primario sfogo emotivo, e quasi in contemporanea all’attribuzione di senso all’accaduto, occorre diventare operativi.
Occuparsi di sé e dei propri hobby o svilupparne di nuovi è in generale una buona idea. Meglio ancora se questi prevedono di condividere del tempo con altri. Uscire e incontrare gente crea la possibilità di ripristinare un buon equilibrio tra riflessione e consapevolezza di sé da un lato e nuove esperienze dall’altro che rappresentano “boccate di aria fresca”.
Accogliere pensieri e ricordi che compaiono ogni tanto è paradossalmente la strategia più efficace per combatterli. Piano piano l’assenza sbiadirà, ma per qualche settimana può esser necessario saperli ancora tollerare. Ciò che è nocivo, non sono i ricordi ma le rimuginazioni, ovvero i pensieri ripetitivi che non lasciano spazio a nuove riflessioni e comprensione di senso. Ascoltare musica e scrivere pensieri sono modi per lasciarsi attraversare da essi senza trattenerli.
Un’altra accortezza è quella di stare attenti a non sorvolare su riflessioni che invece vogliono insegnare qualcosa. La fretta di girare pagina può essere indice di una difficoltà di vivere i sentimenti, di riconoscere e restituire all’altro l’importanza avuta, ma può nascondere anche il rischio di chiudersi a nuove esperienze emozionali instaurando una nuova modalità di difesa. La lettura di un libro sul tema può aiutare ad acquisire nuove consapevolezze, su di sé e sulle dinamiche in amore.
Abolire i confronti se si è stati lasciati per qualcun altro. Non c’è una persona migliore o peggiore, ci sono solo “compatibilità” e “scelte” in amore. Accettare permette di andare avanti liberi e leggeri, cedere al confronto tiene invece legati al passato e ad una relazione che non esiste più.
Quando è nuovamente tempo di riinnamorarsi?
Non esiste alcuna formula matematica che possa dirlo. Ciascuno lo può comprendere da sé in base al tipo di emozioni e pensieri che lo attraversano, al tipo di elaborazione svolta della precedente relazione, a cosa si è capito di sé e dell’altro e della relazione stessa.
Ci sono alcune emozioni a cui stare attenti e da elaborare tra la chiusura di una relazione e l’avvio di un’altra. Esse riguardano: la propria ferita all’orgoglio, il distacco emotivo verso l’ex e la sensazione di dover dimostrare qualcosa a sé stessi o a qualcuno.
Elaborare questi tre aspetti per tempo, prima di iniziare una nuova relazione, contribuisce ad alleggerire il bagaglio della propria esperienza. È importante che lo zaino che portate sia leggero e posto dietro sulle vostre spalle, cioè interiorizzato. Questo permette di incontrare l’altro più facilmente e indipendentemente dal contenuto dello zaino.
Quando si immagina un nuovo partner ciascuno desidererebbe di trovare freschezza, leggiadria, un compagno con cui è piacevole viaggiare. Se lo desiderate, siete disposti ad esserlo anche per l’altro?

25.7.19

Relazione finita, ma io non volevo (Parte II)



Subire una delusione d’amore o essere lasciati può essere doloroso, ma non è la fine del mondo. Una relazione può concludersi in modi diversi. In alcuni casi, addirittura, non riuscendo a chiuderla, qualcuno spera che sia l’altro a farlo.


I motivi per una chiusura possono essere scomodi da ascoltare e da accettare, non comprensibili sul momento o liberatori. Anche in questo caso il tipo di relazione instaurata, la maturità affettiva dei due, le modalità con cui si da luogo alla comunicazione, possono agevolarne l’accettazione e l’elaborazione.
Se chi lascia assume il peso di una decisione e della sua comunicazione, a chi è lasciato, soprattutto quando la notizia giunge inaspettata, spetta il compito di comprendere e accettare il vero senso di questo distacco.
La prima reazione è di ordine emozionale. Non c’è spiegazione o logica che tenga al dolore, alla delusione, alla sensazione di aver perso un’opportunità. È importante, anche in questo caso, darsi il tempo per esprimere emozioni e pensieri, essere pronti a convivere per un po’ con i propri sbalzi d’umore, prendersi appena possibile del tempo per sé stessi e per elaborare quanto è accaduto.
Atteggiamenti utili ma da dosare sono: l’autovalutazione di sé e della situazione, purché non sfoci in auto-rimprovero e pensieri rimuginanti; creare occasioni di svago con il sostegno di amici, purché non siano solo vie di fuga per non vivere le emozioni e poter maturare nuove consapevolezze; prendere del tempo per sé, purché non significhi evitare le relazioni emotivamente coinvolgenti per paura di soffrire di nuovo.
Ciò che aiuta davvero è rimanere sintonizzati su sé stessi, per vivere ogni fase senza sfociare nei possibili rischi ad essa connessi. Una buona alleata è la libertà interiore, intesa come genuina espressione di sé.
Quando le emozioni cominciano ad acquietarsi, si apre lo spazio-tempo per dare senso a ciò che è avvenuto e riflettere sul senso personale di una relazione d’amore. L’essere in relazione infatti si fonda su alcuni principi. Il primo è che esiste una “noità”, un essere a due e che questo “noi” deve poter funzionare, vicendevolmente.
Secondo la psicologa Grazia Attili le relazioni che funzionano si reggono su due presupposti che intervengono già nella fase di scelta del partner: la similitudine e/o la complementarietà. Ciò significa che non è importante trovare un fidanzato, è importante sapere chi e cosa si sta scegliendo, poiché ne va del proprio benessere e futuro.
Un secondo principio fondante le relazioni d’amore è quello della libertà. «Se ami qualcuno lascialo libero» recita una massima. Un’altra afferma: «Il contrario dell’amore non è l’odio, è il possesso».  In entrambe si ribadisce il ruolo importante che hanno l’azione dello “scegliere” e del lasciar andare.
Certo ci vuole tempo per digerire l’accaduto e per comprendere il vero senso di questo distacco.
Forse può aiutare pensare che nulla viene per nuocere. Piuttosto dal modo come si reagisce all’accaduto si possono scoprire nuovi aspetti di sé, alcuni da mettere in discussione, altri di cui essere fieri. Le relazioni non si chiudono solo perché non si è quella giusta per l’altro, ma anche perché l’altro non è quello giusto per te e viceversa.
Invece di vittimizzarsi per la “perdita subita”, occorrerebbe spostare l’asse su “cosa non ha funzionato?” Così facendo ci si sposta da un “non vado bene” alla comprensione delle differenze caratteriali e del ruolo che giocano, alla consapevolezza di non essersi incontrati nel tempo giusto (differenti livelli di maturità affettiva), o di avere una visione della vita e della progettualità che trova pochi o nulli punti di comunione.
Cosa si può apprendere da una delusione d’amore? Nulla se guardiamo alle cause esterne: “sono sempre sfortunato”, “capitano tutte a me”, “li incontro sempre tutti io quelli strani”. E nemmeno se ci si addossa tutte le colpe. Molto se ci si concentra su di sé e si cerca di essere obiettivi con sé stessi, di fare un bilancio del tipo: ho espresso il meglio di me? Ho ricercato la verità della relazione bandendo i sotterfugi? Che tipo di idea ho perseguito: una persona che colmasse la mia solitudine o insicurezza, un modello che mi facesse fare bella figura o una persona con pregi e difetti con la quale crescere, confrontarmi e progettare?
La risposta a queste domande rivela qualcosa di sé, del modo come si sceglie e della direzione verso cui le scelte orientano. Nel prossimo articolo vedremo come superare una delusione d’amore.

Dr.ssa Antonella Ritacco

Fonte Città Nuova  

19.7.19

La chiusura di una relazione (Parte I)





Come può essere vissuta e superata la chiusura di un rapporto da parte di chi decide e di chi deve prendere atto della situazione.



Decidere di chiudere una relazione è una scelta importante. Se la decisione non è unanime assumerne o portarne il peso può essere gravoso. Inoltre ci sono motivi e modi diversi per porre fine ad una relazione d’amore. Essi dipendono dalla maturità affettiva dei partner e dalle loro modalità caratteriali, dalla profondità relazionale che i due avevano stabilito, dalla durata della relazione e dagli investimenti emotivi e di pensiero che su di essa erano stati riversati.
A riguardo, un aspetto non di poco conto è se la relazione ha seguito quei passaggi che possono far ritenere che effettivamente ci si è spesi per quella relazione e nonostante ciò essa non ha funzionato perché mancano le basi per una intesa comune, oppure se la decisione è presa sulla base di principi ritenuti importanti e che entrano in conflitto con il sentimento che si prova per l’altro.
In questo e nei prossimi articoli tratterò di come può essere vissuta la chiusura sia da parte di chi decide, sia di chi deve prendere atto della situazione, sia di come superare questa fase.
Chiudere una relazione non è mai indolore, anche quando apparentemente la persona sembra reagire bene, molti dei meccanismi che si attuano per sopravvivere emozionalmente al dolore hanno a che fare con la “fuga dal pensiero”. Si decide di investire tempo, energie ed interesse in attività che tengano occupati, cosicché lo spazio per i vissuti emotivi ed i ricordi è limitato. Si tratta di un comportamento del tutto sano e usuale purché non si finisca per annullarsi ed essere strapieno di impegni per non pensare e non provare emozioni. Un campanello d’allarme può essere il temere il tempo libero, temendo che le emozioni tornino a incombere.
È importante darsi il tempo per esprimere le proprie emozioni e pensieri, accogliere i propri sbalzi d’umore, avere del tempo per sé stessi e per comprendere ed elaborare quanto è accaduto. Il confronto con gli altri va bene ma è necessario anche saper dosare e mettere dei confini chiari quando non si ha voglia di parlarne ancora.
L’oscillazione emozionale è piuttosto comune nelle prime settimane dopo la chiusura di una relazione profonda o vissuta con intensità e possono perdurare anche per alcuni mesi. Se invece la relazione era agli esordi o non si era stabilito un rapporto profondo, è possibile supporre che il dolore che si prova abbia a che fare con l’idealizzazione della relazione oppure ad un livello più personale con una possibile ferita narcisistica che comporta un vissuto di fallimento.
Imparare a tollerare l’assenza dell’altro. In questo tempo di passaggio è naturale che si rievochino i ricordi e tra essi sia quelli brutti che quelli belli. Ricordarli entrambi è indice dell’importanza che la persona ha avuto nella propria vita, che si riesce a guardare alla relazione con una certa obiettività e che dunque si può ritenere di aver preso una decisione congruente con sé stessi.
Stoppare pensieri rimuginanti ove presenti. Quando si crea un rimuginio, esso nasconde in genere un’emozione o un bisogno non ancora svelato che sta cercando un modo per essere espresso. La mente ritorna sull’accaduto nel tentativo di chiudere un cerchio, di portare qualcosa a compimento. Può essere che la persona stia cercando ancora di comprendere come gestire il conflitto che si è creato tra un principio da salvaguardare ed il sentimento che prova verso l’altro oppure che sta cercando di fare chiarezza ancora su tutti i motivi che l’hanno condotta a prendere quella decisione.
Anche l’autorimprovero rientra nei pensieri rimuginanti. Le persone dovrebbero ricordare che ciascuno fa ciò che può con le capacità che ha nel preciso momento in cui si trova a vivere quella determinata situazione. Il dopo è un altro tempo ed è naturale vedere le cose con maggiore chiarezza “col senno di poi”. In realtà l’unica occasione che abbiamo da vivere è il tempo presente.
Lasciarsi sostenere nell’apprendere a gestire le proprie emozioni, può non essere sempre facile da accettare sebbene aiuta a recuperare più velocemente un proprio equilibrio. A qualunque figura ci si rivolga, un familiare, un amico o un professionista, la persona dovrebbe imparare a darsi perdono, mollare l’autocontrollo sulle proprie emozioni e ad essere meno perfezionista.
Inoltre sarebbe da tenere sempre presente che se si ravvedono motivi per cui la relazione non funziona, questi hanno la priorità di attenzione rispetto al bisogno/desiderio di essere in coppia.
La relazione ha bisogno di basi solide per poter funzionare nel tempo e la fase del fidanzamento è il momento giusto per sondarle. Pertanto, può essere importante, nei momenti di calo dell’umore, ricordarsi i motivi per cui ci si è separati e cosa veramente si cerca e si vuole da una relazione. Questo non toglie il dolore per l’assenza dell’altro, né valore alle caratteristiche che egli ha, aiuta invece ad autosostenersi nel cammino verso una più chiara definizione di ciò che si è e ciò che si vuole.

Dr.ssa Antonella Ritacco



Fonte Città Nuova


4.7.19

Genitore e single




Prendersi dei momenti di riflessione personali perché la maggior parte delle recriminazioni partono dal non sentirsi capiti, rispettati, supportati.


I motivi per cui ci si ritrova ad essere genitori single possono essere i più svariati. Come per ogni cosa, esistono motivazioni ufficiali, quelle che vanno bene per tutti e ci sono motivazioni più intime e profonde, per nulla immediate, che solo gli interessati possono col tempo arrivare a comprendere.
Qualunque sia la situazione che conduce a crescere un figlio da soli, essa non è mai priva di sfide e di dolori bensì è di una costante rimessa in discussione di sé.
Sono sempre possibili cicliche rivalutazioni della scelta intrapresa o ricordi dei vissuti legati a come essa è avvenuta; si palesano gli effetti sulla relazione con i figli sia per chi è presente sia per chi li vede a ondate; si impongono le difficoltà della vita quotidiana e dei suoi costi, ove a volte anche i beni necessari come un tetto sulla testa diventano proibitivi. La propria ed altrui vita viene rivoluzionata. Come si trasformano le emozioni verso il precedente partner, come si reagisce ai tentativi di riavvicinamento, o quali possono essere i riflessi emozionali davanti alle richieste e velate minacce dei figli che cercano di estorcere un riavvicinamento? Come e quando sono stati innalzati i muri, e dove è iniziato il punto di non ritorno sulle proprie decisioni?
Ogni cuore ha certamente le sue ragioni. Quando si è in interazione con l’altro non è facile comprendere quale parte della persona si attiva, la relazione viene vissuta, non tanto meditata. Per questo è importante prendersi dei momenti di riflessione personale e di coppia per capire cosa succede e come si può attimo per attimo interagire e dialogare.
La maggior parte delle recriminazioni partono dal non sentirsi capiti, rispettati, supportati,ma questo è molto probabile che sia anche il vissuto speculare del proprio partner. Oppure ci si accusa di non valere o fare mai abbastanza, come nei casi in cui si sta amando l’altro ma non nel modo come lui ne avrebbe bisogno.
Il nostro mondo interno è variopinto e non ragiona ma associa. È facile dunque che alcune situazioni ne richiamino altre e senza che la persona se ne accorga si attivino i retaggi di vecchie ferite mai rimarginate del tutto. Se in quei momenti non si è in grado di riconoscere quanto sta avvenendo si genera confusione su sentimenti passati e situazioni attuali.
Per questi motivi prima di chiudere una relazione e prima di iniziarne una nuova è necessario avere chiaro cosa non ha funzionato e quale è la propria parte di responsabilità, quali campanelli d’allarme non sono stati ascoltati e avrebbero dovuto esserlo. Non ha senso ragionare su i “se” ed i “ma”, ha senso imparare a non ripetere gli stessi errori.
Un riavvicinamento è sempre possibile ma chiaramente solo se sono state elaborate e superate le cause che hanno portato alla precedente rottura esso potrà condurre ad esiti diversi.
Con le emozioni non risolte interferiscono anche le continue sollecitazioni, provocazioni o minacce dei figli che chiedono la vicinanza affettiva e fisica dell’altro genitore, che non comprendono i motivi dei “grandi” e che per ottenere i loro tornaconti molto spesso attivano sofisticate strategie di triangolazione.
Rimanere genitore neutro e intellettualmente onesto può non essere sempre facile. Occorre consapevolezza delle proprie decisioni e prontezza nell’assumersene gli effetti, ed avere chiari i limiti ed i confini del ruolo educativo per fare pienamente la propria parte e lasciare spazio all’altro genitore per come egli può esser presente.
Il muro che porta i due ad allontanarsi si costruisce mattoncino dopo mattoncino ogni giorno. Ci si sveglia un giorno che è già finito. Il tragico non è a mio avviso che il muro ora sia lì. Il tragico è che non si sappia neppure come è stato costruito, che si manchi della necessaria comprensione di come si è arrivati a quel punto senza la quale non si può intervenire. È per questo motivo che ritengo che oggi i percorsi di “alfabetizzazione all’amore” siano un abc importantissimo della relazione affettiva adulta e che le coppie dovrebbero rimanere in formazione continua. Due naturali conseguenze sono: la paura per le successive relazioni ed i copioni ripetitivi attraverso i quali si ricercano sempre gli stessi tipi di partner a conferma che «tutti gli uomini/ tutte le donne sono così» ed al fine di non cambiare nulla di sé.
Inoltre se non è facile essere genitore unico, non lo è neppure conciliare con esso il proprio ruolo di donna o di uomo.
Concludo con alcuni interrogativi aperti su cui ritengo sia necessario continuare a riflettere attentamente. Che fine fanno il maschile ed il femminile che c’è in ogni essere umano, in che modo trovano ancora spazio di espressione? Come fare in modo che questi cambiamenti non interferiscano con una nuova dimensione di sé né con il naturale processo di identificazione sessuale che si sviluppa tra genitori e figli? E quando l’altro genitore è veramente assente, chi può supplire alla mancanza della sua figura?

Dr.ssa Antonella Ritacco


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https://www.cittanuova.it/genitore-e-single/ 

27.6.19

Emozionarsi, senza paura




Alcune emozioni sono temute, represse o giudicate poiché ritenute socialmente inaccettabili o pericolose, eppure sono indispensabili alla nostra vita e per stabilire rapporti profondi con sé stessi, con gli altri e con l’intero creato.


L’emozione è l’espressione di un messaggio che il corpo rimanda. Essa origina in primis nel nostro cervello, dove in risposta ad uno stimolo, interno o esterno, ed alla sua elaborazione si genera un pensiero ed un’attribuzione di senso. Essa porta con sé un messaggio cifrato che mediante l’accompagnamento dell’adulto e l’educazione emotivo-affettiva, sin dall’infanzia possiamo imparare a riconoscere e comprendere sia nelle manifestazioni che nel significato. Il tipo di educazione emotivo-affettiva che si riceve non è l’unica spiegazione del perché le persone hanno rapporti diversi con le emozioni: questi dipendono anche dal personale grado di maturazione raggiunto che è differente in base all’età e all’esperienza.
Sappiamo che alcune emozioni sono universali e vengono vissute allo stesso modo in tutte le culture. Alle prime appartengono tutte le emozioni primarie, approfondite anche nel kit del giornalino Big “Grandi emozioni a piccoli passi“. Sono: gioia, paura, tristezza, rabbia, disgusto e sorpresaTra le emozioni secondarie troviamo ansia, allegria, vergogna, senso di colpa, gelosia, nostalgia, rassegnazione, rimorso, offesa, delusione.
Pregiudizi sulle emozioni
Alcune emozioni sono temute, represse o giudicate poiché ritenute socialmente inaccettabili o pericolose
. Ad esempio la rabbia, il disgusto, la paura, l’ansia, la vergogna, il senso di colpa vengono sovente collegate con una possibile perdita di controllo e con una cattiva immagine di sé. Eppure senza di loro ci rassegneremmo alle ingiustizie, resteremmo esposti al macabro, trascureremmo i pericoli, non avremmo segnali per capire quanto per noi quello che sta per accadere è importante, non metteremmo limiti all’indecenza, né saremmo consapevoli dell’entità degli effetti del nostro comportamento. Queste emozioni sono scomode poiché mettono in discussione, invitano a scoprire e riconoscere i propri limiti al fine di superarli.
Senza una sufficiente familiarità con esse si può esserne spaventatiÈ l’esperienza di quanti provano ansia generalizzata. Essi avvertono una serie di reazioni psicocorporee a cui non riescono ad attribuire né significato né connessioni logiche con la loro esperienza. Non essendoci comprensione né accoglienza di quanto accade, le reazioni si amplificano e la persona, non sapendo come comportarsi, ne è spaventata.
In generale si crede di dover mostrare solo alcuni tipi emozioni al fine di dare un’immagine di sé coerente, senza considerare che così facendo si propone un’immagine statica di sé e ci si costringe a non provarne molte altre che sarebbero invece coerenti con le situazioni contestuali. In questi casi il mondo affettivo-emozionale della persona diviene gradualmente sempre più ristretto e coartato.
Le emozioni ci attendono
Se è vero che esse si apprendono sin da piccoli è anche vero che affinché l’adulto accudente possa trasmettere la capacità di riconoscerle e gestirle è necessario che a sua volta l’abbia appreso. Imparare a familiarizzare con le emozioni anche da adulti si può. Esistono training sulla gestione delle emozioni e sullo sviluppo di una intelligenza emotiva che servono proprio a questo.
Le emozioni sono basilari in tutti i contesti in cui viviamo e gli studi sull’intelligenza emotiva confermano l’importante ruolo che esse svolgono nelle interazioni e nel lavoro. Senza di esse la relazionalità e la salute mentale sarebbero minacciate e con esse anche molte altre forme di interazione con il mondo circostante.
Se da un lato le emozioni possono rappresentare una sfida, al contempo sono una grande risorsa per stabilire rapporti profondi con sé stessi, con gli altri e con l’intero creato.
Dr.ssa Antonella Ritacco

Fonte Città Nuova  

6.6.19

Il gioco di equilibri in famiglia



La costruzione e gestione delle relazioni nei nuclei familiari è un allenamento che dura tutta la vita. Servono maturità personale, capacità di ascolto, empatia e piccole regole di buona comunicazione

Ci sono rapporti con le famiglie di provenienza che rendono felici, in cui ciascuno ha spazi personali, può gustare del tempo insieme, andare e ritornare per un senso del piacere, per il desiderio di rivedersi. Questo modello di famiglia non è privo di conflitti, ma nel riconoscimento delle reciproche individualità trova le modalità per farvi fronte.
Accanto a questo prototipo di famiglia si può tracciare un altro profilo, quello delle famiglie in cui le tensioni si respirano, i contrasti sono all’ordine del giorno, gli spazi personali sono invasi o tenuti nascosti, gli allontanamenti sono vissuti come abbandoni e i ritorni sono accompagnati da recriminazioni. In queste circostanze lo svincolo dalla famiglia può essere molto doloroso oppure ostacolato.
Si tratta in genere di situazioni in cui i “non detti” sono utilizzati come minaccia, le situazioni irrisolte sono pesi da addossare agli altri, le frustrazioni personali sono intollerabili. Da un lato si desidererebbe disfarsene ma dall’altra sono essenziali per tenere agganciate le persone, motivare e rafforzare attacchi e rimproveri. Al fine di ottenere un alleggerimento emotivo, la persona utilizza le “scariche emozionali” sotto forma di attacchi, rimproveri, recriminazioni e conflitti. La richiesta di attenzioni non è mai diretta, mentre le attese sul comportamento dell’altro sono alte.
La sofferenza che provano queste persone è grande, così come grande è la loro fragilità interna eppure difficilmente chiedono o accettano un aiuto professionale. L’assenza di riconoscimento e confini personali genera e protrae confusione.
La famiglia non è un’isola. I suoi membri interagiscono costantemente l’un con l’altro e con il mondo esterno. Quando la relazione con uno o più congiunti è difficile, le persone cercano per prima cosa un accomodamento che permetta loro di sopravvivere emotivamente in quel contesto. Quando i conflitti aumentano e seguono un copione conflittuale ripetitivo, le persone per proteggersi utilizzano altre vie: in genere l’isolamento o l’esclusione.
Nell’isolamento la coppia si chiude in sé stessa e limita i contatti con tutti. In questo modo le intrusioni tanto temute non possono più rappresentare un pericolo. Questo isolamento, nel medio e lungo periodo, può creare complicazioni a vari livelli di cui non tratteremo in questa sede.
Nell’esclusione ci si allontana solo da quelle persone che i cui comportamenti sono ritenuti troppo invasivi, lesivi e minacciosi per la stabilità interna della persona e della coppia. Questa scelta può essere considerata definitiva oppure temporanea solo fino a che i comportamenti incriminati non cambiano.
Troppo spesso si tende a dimenticare che ciò che crea un ostacolo non è la persona in sé ma il suo comportamento. Esso ha cause ed origini ma per quanta comprensione si possa avere verso la persona e la sua storia, ciò non toglie che tale modo di fare resta un comportamento problematico che genera soprattutto nella cerchia familiare non poche difficoltà.
Qualunque scelta si prenda, essa è in genere il risultato di una valutazione delle proprie forze (come individuo o come coppia) e capacità del momento di intervenire sulla situazione, di conviverci o di fronteggiarla. Essa è anche in relazione: con la valutazione della consapevolezza che la persona ha del suo comportamento e degli effetti che esso produce, e con la previsione di possibili cambiamenti.
Per chi sente il bisogno di dover prendere distanza da questo tipo di contesto è importante aver presenti quali sono le emozioni che lo accompagneranno (ad es. dolore, rabbia e senso di colpa) e qual è la loro funzione. Una nota speciale merita il senso di colpa. Esso ha una doppia funzione: da un lato serve a mantenere la vicinanza, cosicché nessun cambiamento è possibile, dall’altro è segnale della rabbia interna che in genere i figli o il partner provano per non riuscire ad attuarne uno.
Per chi viene arginato. Queste persone dovrebbero imparare a stabilire connessioni tra le proprie emozioni, pensieri, comportamenti e conseguenze. Affinché ciò sia possibile dovrebbero: smettere di giudicare e giudicarsi, concedere e concedersi permessi esistenziali, e imparare sia a chiedere che ad accettare.
Imparare a gestire la giusta distanza dalle famiglie d’origine richiede consapevolezza, chiarezza e fermezza. Si tratta di un allenamento che dura nel tempo. Ma in casi come questo e con le emozioni sopracitate addosso, questo processo richiede un’attenzione ancora più speciale per evitare che troppo velocemente si reputi l’esclusione definitiva della persona come l’unica e sbrigativa soluzione. Riuscire a comunicare il bene che si vuole alla persona nonostante il dolore e la rabbia che arrecano i comportamenti può non essere facile, tuttavia è importante per restituire a chi si sente ferito da una reazione, un senso integrale di sé.

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https://www.cittanuova.it/gioco-equilibri-famiglia/


10.5.19

Imparare a volersi bene



Se non si è capaci di prendersi cura di sé stessi e di apprezzarsi non si può neanche riuscire bene a dare attenzione e amore agli altri.

Nella ricerca del partner non sempre tutto scorre liscio. In alcuni casi si può arrivare anche a perdere la fiducia in sé o nell’altro, ad arrabbiarsi o addirittura a rassegnarsi di fronte alle situazioni che non cambiano. In questo groviglio di sofferenza la persona rischia di trascinarsi per anni. Impossibilitata a uscire fuori da un circolo vizioso che parla di alcune ferite aperte e mai del tutto sanate, perché troppo dolorose da curare. La si ascolta parlare dunque in modo rassegnato su come vanno o sono andate le cose nella sua vita, ora arrabbiata verso sé stessa, ora verso l’altro, ora verso la vita stessa.
Queste persone hanno in genere delle consapevolezze a metà, mancano cioè delle dovute connessioni l’una con l’altra. Ci sono dei processi che la nostra mente a volte opera per tutelarci da verità ritenute troppo dolorose per l’equilibrio emotivo e la stabilità interna della persona. Per questo motivo al posto delle connessioni logiche, che darebbero senso e permetterebbero di superare questi blocchi proprio attraverso l’attraversamento del dolore, si vengono a formare delle deduzioni spesso illogiche che però hanno una parvenza di verità nella mente dell’interessato.
Durante una conferenza per single una donna di circa 45 anni si interrogava rassegnata su che senso potesse avere alla sua età mettersi in discussione, affrontare un lavoro terapeutico. Il suo punto di osservazione partiva dal fatto che riteneva già chiusa la possibilità di una relazione e di una famiglia. Con rabbia raccontava dei rimandi negativi avuti da più parti nella sua vita. Si poteva percepire nelle sue parole un dolore profondo, una rabbia ed una rassegnazione.
Il dolore profondo è legittimo. L’umanità ferita grida dentro ciascuno quando sente che non gli viene resa giustizia e non essere rispettati per ciò che si è, ma valutati per ciò che si fa, arreca dolore. Umano è anche voler tacere questo dolore, così come può accadere di provarne vergogna sentendosi inadeguati. Umano è il tentativo di cercare di nasconderlo agli occhi ed al cuore e di far finta di nulla per sopravvivere. Umano, ma non logico! Perchè senza dolore nessun bruco diventa farfalla, non c’è nascita né vita, non c’è crescita, non c’è sviluppo interiore.
La rabbia è energia vitalefinché c’è rabbia nelle persone c’è anche una speranza. È quando la rabbia diventa distruttiva che la persona perde il lume della ragione e l’energia vitale che le sottostà non può svolgere la sua azione. Ove c’è rabbia c’è un bisogno o un diritto leso. Imparare ad ascoltare questa rabbia alleggerisce tensioni muscolari, alleggerisce la mente ed i pensieri, permette di prendersi il tempo per riflettere e comprendere non solo da dove essa origini, ma come occuparsene.
La rassegnazione è misura ed indice della resa e perdita di speranza di fronte al pensiero “non c’è nulla che si possa fare”. Più essa è grande più si è vicini alla l’ultimo stadio prima di gettare la spugna ed arrendersi ad una vita che sovrasta. Ma è proprio vero che non ci sia nulla da fare?Molte volte ci si arrende senza neppure provare. La paura di misurarsi con una situazione, l’inesperienza nell’utilizzare le proprie competenze, la difficoltà a volte di riconoscersele, il pregiudizio di dovercela fare da soli e la conseguente difficoltà a chiedere aiuto fanno sì che si sovrastimi la reale entità della situazione e si disconoscano le risorse disponibili, quelle proprie e dell’ambiente circostante.
Raggiungere una nuova visione di sé come persona degna, implica un risveglio emotivo verso la propria persona e di imparare a guardarsi con occhi nuovi. Innamorarsi di sé è un atteggiamento, è una nuova primavera dei sensi che consta in piccole accortezze: dal fare cose belle e buone per sé stessi che restituiscano un senso di valore alla propria persona, al trattarsi bene, ad esempio curando il proprio aspetto o il proprio ambiente senza alcuno scopo specifico.
Riacquistato questo amore verso sé stessi, si può meglio amare anche l’altro. D’altronde il presupposto per amare è e resta “Ama l’altro come te stesso”, che indica chiaramente come senza prima un amore a sé, l’amore all’altro non ha una struttura, un modello a cui riferirsi.

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https://www.cittanuova.it/imparare-volersi-bene/

4.5.19

I 5 linguaggi dell’amore di Gary Chapman



Certe volte amare sembra essere complicato. Le hai provate tutte ma ti sembra che ancora non basti, e quello che fai non viene apprezzato a sufficienza, recriminazioni e rimproveri sono sempre dietro l’angolo e l’altro non vede ciò che fai e quanto ti impegni. Sembra quasi come se tra voi parlaste una lingua diversa.

E se fosse veramente così?
Gary Chapman, consulente familiare e antropologo americano noto per aver identificato, tra gli altrii 5 linguaggi dell’amore spiega che ciascuno ha un serbatoio emozionale e che questo può essere riempito attraverso diverse modalità di comportamento. Ciò che egli notò è che ciascuno dà e sperimenta di ricevere amore in modi differenti. E cioè che un gesto può essere estremamente significativo per qualcuno mentre per qualcun’altro può passare assolutamente inosservato.
Ciascuno utilizza la modalità di espressione che ha imparato e che connota il suo specifico linguaggio d’amore. Se l’altro non parla lo stesso linguaggio si ha la sensazione di “fare fare fare” per l’altro mentre l’altro non se ne accorge neppure con il rischio di arrivare ad esaurire le energie psicofisiche e rimanere senza alcuna gratificazione o risultato. Per questo motivo egli invita i partner a conoscere ed imparare a parlare il linguaggio d’amore dell’altro piuttosto che continuare inconsapevolmente a chiedere all’altro di parlare il proprio con il solo esito di collezionare numerose recriminazioni.
Cosa fare?
Innanzitutto annotare le recriminazioni in merito alle attenzioni non ricevute. Esse, per quanto fastidiose da ascoltare, nascondono una richiesta. Sono un segnale di ciò di cui l’altro ha bisogno e di cui lamenta l’assenza. In secondo luogo osservare cosa il partner fa per voi e di cui probabilmente non vi accorgete (poiché ai vostri occhi non è così importante) ma che è pronto a rinfacciarvi nei momenti di scontro.
Una volta stilate queste due liste siete pronti a confrontare recriminazioni ed osservazioni con i 5 linguaggi dell’amore che Chapman descrive.
Il linguaggio di rassicurazione riguarda tutto ciò che ha a che fare con l’infondere nell’altro un senso di sicurezza, di riconoscimento personale, di stima, il rivolgersi all’altro con parole rispettose e gentili al di là di cosa si debba o voglia comunicare. Il linguaggio dei momenti speciali che riguarda la capacità di prendersi del tempo per stare insieme e dedicarsi l’uno all’altra, come ad esempio essere presenti nei momenti importanti della vita dell’altro o realizzare insieme qualcosa che fa piacere ad uno dei due. Il linguaggio dei gesti di servizio ovvero la disponibilità a fare qualcosa di cui di norma si occupa l’altro, per gentilezza, per alleggerirlo, per fare una sorpresa. e questo indipendentemente da che ci sia o meno una richiesta. Il linguaggio del contatto riguarda il modo di scambiarsi tenerezze ed effusioni a livello fisico, alcune persone sono più tattili di altre e per loro il tocco, la gestualità, lo sguardo profondo, la sessualità sono imprescindibili dalla capacità di sentirsi amati. Il linguaggio dei doni, ovvero la capacità di trasmettere all’altro “tu sei importante per me”, “ti ho pensato” attraverso il dono di sé e del proprio tempo così come attraverso doni materiali.
Cooperare a mantenere il serbatoio emozionale dell’altro sempre pieno o ben equipaggiato è un segno di genuino interesse dell’altro ma anche una misura di prevenzione per i momenti di difficoltà che nella relazione possono sempre verificarsi. L’effetto immediato è di sentirsi inebriati dalla piacevolezza delle emozioni che nella relazione di coppia circolano e questo ha un effetto di rinforzo per entrambi e per la relazione stessa. L’unione la vicinanza possono essere meglio avvertite, non ci sono barriere legate al rancore ed alla recriminazione, la persona si sente non solo amata ma davvero conosciuta e rispettata nella sua intima natura.

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27.4.19

Stanca di essere solo single



Scoprire il proprio essere persona. Col tempo si impara a vivere in maniera equilibrata, con la scoperta del modo di stare nelle relazioni alla pari con gli altri.

Quando una persona è single da lungo tempo, e comincia ad osservare la propria vita, spesso può riconoscere in essa varie tappe. Fasi in cui ha sognato o ricercato più o meno ossessivamente l’amore; fasi in cui si è scoraggiata, arrabbiata o è stata delusa; fasi in cui si è buttata a capofitto nel lavoro dimenticando perfino sé stessa e la propria vita privata; altre volte in cui la voglia di gustarsi la vita è stata così forte da volerla vivere appieno e senza alcun pensiero verso un possibile partner o fasi di rassegnazione.
Nell’avvicendarsi di queste fasi può arrivare anche un tempo in cui la persona non vuole più identificarsi con lo stato di single. Avverte dentro che la dicotomia partner/single gli sta stretta e che il suo essere una persona non dipende dallo status ma dal valore che ella si da e da come decide di vivere la sua vita.
Una paziente formulava così l’interrogativo di questa nuova fase: «Non voglio più identificarmi con lo status di single, né voglio pensare di dover essere “o sposa o single”. Mi chiedo dove inizia e dove finisce il mio essere persona. Non voglio più che il mio lavoro compensi l’assenza di una famiglia, né che ciò che faccio sia qualcosa per coprire un buco. Tutto ciò che facevo fino a qualche tempo fa era in funzione della ricerca di un partner ed il lavoro ne è diventata la compensazione. Ma ora questo mi sta stretto. Rivoglio la mia vita, il tempo per me, per ciò che mi piace. Io esisto e ne ho diritto».
Con questa ritrovata voglia di darsi spazio e valore può accadere che anche le usuali attività o frequentazioni possano risultare desuete. Se ad una attività ad esempio è stata data la specifica funzione di riempire un’assenza, a meno che la persona non scorge in essa un nuovo senso, essa potrebbe essere difficile da continuare a svolgere. Per attribuirvi un nuovo senso, d’altronde, potrebbe essere necessario anche passare attraverso un periodo di sospensione. In genere una pausa permette di verificare che tipo di sentimenti l’assenza genera in sé. Il distacco permette di meglio comprendere se si trattava di un interesse genuino verso quella attività o se invece si trattava di un’attività compensatoria.
Allo stesso modo quando si frequentano persone con le quali sino a quel momento si è cercata complicità per sostenersi a vicenda nella ricerca di un partner, si viene a creare con queste una divergenza rispetto agli scopi del ritrovarsi. Il vecchio obiettivo per uno dei due non è più valido e questa diventa l’occasione per verificare cosa teneva insieme il legame fino ad allora.
L’importanza di questa fase
Che sia solo una fase o che sia la scelta di una nuova quotidianità della persona, questa fase è molto importante per riequilibrare la capacità personale di riconoscere a se stessi ed agli altri il giusto valore, di stabilire un nuovo rapporto con sé stessi, di saper riconoscere e rappresentare i propri diritti. Questa fase generalmente segue altre fasi in cui ci si è messi in disparte, trascurati, posti al secondo piano in maniera stereotipata. Qualche volte si potrebbe anche aver abdicato a qualcun altro la facoltà di assumere decisioni su di sé, posizione per certi versi comoda e facile ma per tanti altri molto sofferente e restrittiva della propria libertà.
Col tempo si impara a riconoscere i propri diritti, dai più piccoli ai più grandi ed a viverli in maniera equilibrata come un bene ineliminabile della propria esistenza. Ciò determina necessariamente un riposizionamento del modo di stare nelle relazioni alla pari con gli altri, sia una acquisizione di libertà interiore nel dialogo con sé stessi e nella valutazione delle proprie scelte. È come se improvvisamente si riacquistasse insieme alla voglia di vivere appieno, anche una maggiore leggerezza.

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20.4.19

Io esisto e ne sono felice!



Cogito ergo sum! Diceva Cartesio ad indicare che dalla consapevolezza di sé origina la possibilità di darsi uno spazio nel mondo

La capacità di pensarsi e di attribuirsi importanza ed esistenza nell’adulto non viene da sé. È una capacità che si acquisisce sin dall’infanzia attraverso la soddisfazione di un bisogno sociorelazionale importante in ogni fase della vita: l’essere visti. Un bambino che è stato e si è sentito “visto” è un bambino che non si sente invisibile. Ciò significa che impara a riconoscere i propri bisogni e le proprie specificità e ha maggiori capacità di riconoscersi una persona degna di valore. Quando questo bisogno viene trascurato, la persona può impiegare lungo tempo prima di riuscire a riconoscerselo. Ne deriva che nelle relazioni che egli vive, costantemente tende a chiedere agli altri conferma di sé e del suo valore o addirittura negarselo in molteplici modi. In questa situazione la persona sperimenta un’immane fatica quotidiana di affermare sé stessa e facilmente rischia di rimanere intrappolata in un “copione” svalutante che si ripete sempre identico a sé stesso anche con persone, luoghi e contesti differenti.
Conquistarsi giorno dopo giorno il diritto di esistere, di essere sé stessi, di dire la propria, la possibilità di chiedere, di scegliere, di prendere ciò che è già suo di diritto possono in taluni casi rappresentare delle sfide. Tutto questo ha molto a che vedere sia con la capacità di essere assertivi sia con l’autostima.
Come superare questi piccoli, medi e grandi ostacoli al diritto di esistere?
  1. È importante per prima cosa riconoscere che nell’età adulta questi diritti negati possono appartenere alla propria costruzione mentale e che dietro di essi non c’è, o non c’è più, un diniego altrui. Questo libera dalla fantasia collerica o punitiva che qualcuno debba avere necessariamente una colpa e permette sia un’assunzione di responsabilità che di avere una funzione attiva nella propria vita. A ciascuno è data, per principio, la capacità e possibilità di pensare, parlare, scegliere, chiedere. Un limite esterno si ha nelle coercizioni, negli altri casi si tratta di limiti interni, di una autoesclusione.
  2. Diventa a questo punto possibile stilare un elenco dei diritti che personalmente non ci si riconosce e di identificare le azioni quotidiane attraverso le quali giorno dopo giorno si può passare da una condizione di “non posso” (divieto) ad un pensiero interno di “posso” (permesso), di “ce la faccio”, fino ad arrivare al “ce l’ho fatta!”.
A cosa fare attenzione? 
Alle ricadute e alle reazioni degli altri.
Le ricadute sono parte del processo, stanno ad indicare che si è in allenamento e che gli schemi vecchi possono ancora interferire con la libera scelta e consapevolezza della persona. Hanno inoltre la funzione di offrire l’occasione di verificare se quanto ci si è proposto è corrispondente alla propria volontà.
La reazione degli altri, di fronte al cambiamento di una persona, può essere di stupore ma anche di freno. In generale quando non si esercitano i propri diritti, si lascia uno spazio libero di cui altri possono usufruire. Chi dunque è abituato ad avere da questo “misconoscimento” maggiori privilegi, prima di comprendere che si tratta di un naturale e giusto riequilibrio, avverte come se questi “privilegi” gli venissero sottratti. Per fare un esempio: un fratello che ha sempre potuto godere delle attenzioni di tutti perché la sorella remissivamente abdicava ad ogni diritto e bisogno cercando di non dare problemi o non emergere, allorquando la sorella comincia a prendere il suo proprio spazio personale e ad affermare la propria identità, potrebbe vedere ristretti i suoi vantaggi ed istintivamente comportarsi come se volesse ostacolarne il progresso. In realtà sta solo cercando di mantenere uno status quo a cui era abituato. L’analogo può accadere anche in altri tipi di relazioni in cui si creano relazioni stereotipate o qualcuno abdica al suo spazio esistenziale.
E naturalmente a ciascuno serve del tempo per orientare il cambiamento, imparare ad utilizzare questi spazi recuperati, saper padroneggiare i propri diritti e volontà ritrovati e raggiungere un nuovo riequilibrio.

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