17.1.19

Coppie, 7 motivi per non vivere coi familiari



Due giovani sposi dovrebbero ambire da subito alla propria indipendenza, per il proprio benessere e quello della famiglia d'origine



Avete deciso di sposarvi, ma le finanze sono ancora instabili e c’è un appartamento libero accanto ai genitori di uno dei due, o una stanza in più che non viene mai usata a casa loro. Ne parlate col partner, anche i vostri familiari sono d’accordo, forse non tutti. «Ma sì, forse per un po’, qualche mese, finché non si sistema la situazione di quel contratto, o non trovate un lavoro migliore. Così siamo tutti più tranquilli!». «E poi ci pensi, con i soldi che risparmiamo sicuramente potremo comprarci i mobili per casa nostra».
Argomentazioni che un tempo avrebbero retto e forse fatto anche la fortuna degli inizi di una giovane coppia che così poteva più velocemente acquistare una casa e “stabilizzarsi”, mentre oggi vengono guardate con diffidenza da amici, alcuni parenti, psicologi e guide spirituali. Perché?
I principali motivi per cui una giovane coppia dovrebbe ambire da subito a una propria indipendenza riguardano aspetti sia della coppia e del processo attraverso cui essa si definisce, sia i bisogni o criticità della relazione con la famiglia di origine. Vediamone 7:
  • Noi. Una giovane coppia ha bisogno del suo tempo per definire il personale modo di stare nella relazione. La funzione “noi” è un processo lento che necessita della giusta privacy, intimità e di un “vuoto fertile” per essere sviluppata.

  • La coppia ha suoi propri confini e non tutti i genitori sono pronti a rispettarli, né tutti i figli sono già allenati a insegnare ai propri genitori a tenerne conto. Nella relazione tra figlio e genitore arriva il momento in cui l’uno deve mostrare all’altro che è arrivato un nuovo tempo e che i modi di prima ora risultano intrusivi e lesivi della nuova realtà di coppia.

  • Intimità. L’intimità della coppia è un luogo sacro in cui nessun altro è autorizzato ad entrare. Essa è condivisione profonda della propria interiorità, è fare progetti insieme, è custodire le proprie scelte e motivazioni, è vivere la sessualità, è fare le cose con il proprio tempo e ritmo.

  • Vuoto fertile. La coppia necessità di quello spazio/tempo in cui la relazione può impastarsi, lievitare e trasformarsi in un rapporto sano ed equilibrato tra i partner e con le figure d’origine. È l’assenza, intesa come lontananza e subitanea indisponibilità, che permette di sviluppare la giusta distanza, che sarà così importante per fare spazio al “noi”.

  • Assumere e riconoscere ruoli e capacità di ciascuno. A livello psicoemotivo, convivere tutti insieme genera confusione tra i vari ruoli di figlio, adulto, genitore, amico e confidente da un lato e i concetti di indipendenza, maturità, autonomia e affettività dall’altro. Si vengono a creare facilmente ambiguità di questo tipo: 1) ritenere adulto e maturo un figlio quando non lo si ritiene ancora indipendente ed affettivamente pronto a formare una sua famiglia come nucleo a sé stante; 2) avere paura di autorizzarne lo svincolo per timore di perdere il legame affettivo privilegiato, o di soffrire della “sindrome del nido vuoto” legata all’uscita dei figli da casa, o di doversi nuovamente confrontare con il proprio partner a tu per tu, come ad es. nei casi in cui il figlio funge da mediatore nella comunicazione tra i genitori.

  • Autoregolazione e condizionamenti. L’autoregolazione è il meccanismo attraverso il quale la coppia giunge a definire le personali regole di comunicazione, di scelta, di confronto e disaccordo, di litigio, di riflessione, di mediazione e conciliazione. Attraverso di esse si attua la distribuzione del potere tra i partner, si definiscono equilibri e livelli di paritarietà. È importante notare come questi processi possono essere realmente liberi di esplicarsi e giungere all’autoregolazione allorquando sono liberi da condizionamenti, interni o esterni che siano. Un condizionamento importante da citare quando si vive con i genitori o a diretto e costante contatto con loro è che il figlio o la figlia in questione è in casa propria, ma il partner no e questo crea necessariamente un disequilibrio di potere nella coppia.

  • Desatellizzazione. È quel processo così definito dallo psicologo Giovanni Marini, tale per cui un giovane che si stacca dalla famiglia di origine deve poter rendersi indipendente ed autonomo non solo economicamente e strutturalmente, ma anche affettivamente. Il mancato svincolonuocerebbe a lungo andare sia alle persone che alla relazione di coppia, sia quella genitoriale che quella dei figli.

L’andare ad abitare insieme è per una giovane coppia una prova del 9 e insieme un trampolino di lancio verso la costruzione e il rafforzamento di quell’essere “noi” che sarà così importante negli anni a seguire. Questi primi tempi della vita insieme sono importantissimi e, se necessario, vanno tutelati anche a costo di non essere del tutto compresi o supportati.
Infatti, non c’è giusta distanza se non c’è liberta del cuore e autonomia di pensiero. Solo quando nella relazione sono possibili sia la vicinanza che l’allontanamento, la relazione può dirsi matura.

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11.1.19

La fatica di crescere



La capacità di rinnovarsi è importante per ogni persona e quando si interrompe si può ricorrere all’aiuto psicoterapeutico per ripristinarne la funzionalità.



Ricordo più di una paziente che, durante i nostri appuntamenti, pian piano ha scoperto quanto immobilismo ci fosse nella sua vita, apparentemente così piena di tante cose da fare, con il suo continuare ad essere accondiscendente con i genitori nonostante vivesse oramai da sola e avesse un lavoro. Bastava ritornare a casa per il pranzo settimanale o per una vacanza o durante le feste e sentiva il dover di rivestire i panni della ragazzina, figlia, compiacente. Il gioco era facile e sempre lo stesso: una volta entrati in casa si doveva far finta che tutto il mondo fuori non esistesse e che lei fosse ancora la loro bambina. Una volta fuori dalla porta di casa dei genitori, il gioco sarebbe finito e lei avrebbe ripreso la “sua” vita.
È la storia di molti giovani che si costringono ad una consapevole doppia identità quando non si tratta invece di un inconsapevole falso sé, pur di non dover misurarsi con le emozioni e la forza di affermare la propria identità.
Una donna simbolizzò questo processo con questa frase: «Quando torno a casa loro, indosso sempre gli stessi abiti, quello con cui tutti in paese mi riconoscono». E pur nella consapevolezza di stare stretti in quella situazione, nel desiderio di voler essere sé stessi, liberi da uno schema a cui si sente l’obbligo di dover partecipare, c’è un dolore che è lo stesso del bruco che si sta per trasformare in farfalla. «Sembra come se una parte di me debba morire e questo mi è difficile e doloroso», diceva una giovane ragazza nel pieno di questa fase della differenziazione e dell’individuazione. Quella, cioé, dell’ultimo periodo dell’adolescenza, che si conclude con l’avvio della fase adulta. È attraverso di essa che ci si può riconoscere pienamente se stessi. È una fase in cui l’obiettivo è scoprirsi come esseri unici ed irripetibili, consapevoli della propria forza interna, e per raggiungerlo sono necessari permessi interni e permessi genitoriali.
Il raggiungimento di questo obiettivo è accompagnato da piccole, naturali e momentanee delusioni che possono essere più o meno grandi a seconda del grado di vulnerabilità presente nella relazione genitore-figlio. Ad es. il figlio rifiuta un regalo o una indicazione che non corrisponde più al suo gusto che cambia, oppure esprime idee, modi di fare e bisogni totalmente diversi da quelli che il genitore gli attribuiva e si sarebbe aspettato.
Quando il grado di vulnerabilità della relazione, per vari motivi, è alto, può accadere che per non provare dolore nel veder soffrire i genitori, e credendo di dover continuare ad “ubbidire”, alcuni figli rinunciano ad attraversare questa fase. Così facendo non misurano la loro forza interiore e finiscono per pensarsi deboli e inadatti: né bravi figli realizzati come mamma e papà (e la società) desidererebbero, né se stessi fino in fondo, né abbastanza adulti nonostante una vita apparentemente autonoma.
Cosa accade generalmente a chi resta immobilizzato in questa fase? Molti di essi finiscono per restare single e mettono in dubbio la fondatezza del desiderio di avere una relazione. Molti altri cercano relazioni in cui non devono mai fino in fondo definirsi e dunque assumere un ruolo, delle responsabilità e compiere delle scelte. Quando arriva il momento in cui è necessario farlo, trovano il modo di scappare dalla relazione con mille giustificazioni.
Alcuni entrano in una relazione di coppia dove molto del loro ruolo è delegato all’altro (è l’altro che risponde al proprio posto, è l’altro che fa, gestisce e dispone e non è necessario l’essere almeno messi al corrente perch: “Mi fido di come lo fa!”). Una relazione di coppia in cui uno dei due partner non ha completato la fase della differenziazione è molto esposta alle interferenze della famiglia di origine o allo scoppio improvviso del partner che subisce l’eccesso di delega.
La presenza del partner, a sua volta, spesso è l’occasione-stimolo per completare quei processi di separazione e individuazione dal nucleo della famiglia di origine che non erano del tutto conclusi. Ed è proprio in questo spaccato che spesso trovano l’incipit le problematiche tra partner e famiglia di origine.
Il processo che accompagna lo sviluppo di una maturità affettiva, cosa ben diversa dall’autonomia, è lento e risente di numerose variabili, alcune legate alle circostanze di vita di cui non abbiamo fatto alcuna menzione in questo articolo. Esso ha anche i suoi risvolti nella vita futura della persona. Ed è la vita stessa che mostra a ciascuno quando è arrivato il momento di mettere mano ad alcuni aspetti di sé. Un tempo che necessariamente dovrebbe essere di riconciliazione con la propria storia.


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4.1.19

Parliamo di noi, come coppia




L’essere un noi nella coppia è una tappa che si raggiunge col tempo e con esso si affina anche la capacità di narrare, a sé stessi ed agli altri, di sé come coppia  



Siamo abituati a pensare alla coppia che vive delle situazioni, fa esperienze, attraversa dei momenti a volte anche di stallo. Una coppia in generale come soggetto attivo, che fa.
La coppia che si racconta è una rarità. Si necessita di un pensiero che accoglie e che integra il vissuto, il punto di vista dell’altro, che opera un meccanismo in cui viene riconosciuta verità e validità ad entrambi. Le congiunzioni utilizzate diventano “e…e”, invece che “o…o”.
Di recente mi è stato chiesto, da una giovane ragazza, cosa potesse leggere per capire meglio come funziona la relazione di coppia. Ascoltandola percepivo che il suo bisogno era di fare esperienza di come funziona una coppia, di andarle a conoscere. Vale certamente anche un racconto scritto, sebbene il farne esperienza, l’osservare i processi di interazione tra i due membri, permette di cogliere degli spetti difficilmente esplicabili in un elaborato scritto.
Che cosa c’è di speciale nella coppia che racconta sé stessa? Ed a chi fa bene?
Quando una coppia si racconta, attiva in sé stessa un processo di autoriflessione tutt’altro che spontaneo. Si può dire qualcosa di sé in tanti modi ma quando questa verità sta incontrando la verità della narrazione dell’altro per fondersi in una, può non essere facile. Occorre che crollino le barriere del giudizio e del pregiudizio, dell’orgoglio, del naturale bisogno di dare una bella immagine di sé, del rimettere in discussione in sé stessi ciò che si era pensato e ritenuto vero fino a quel momento.
Si scoprono nessi che non si pensavano attraverso l’uso delle risonanze, cioè, quanto viene dall’altro raccontato produce degli effetti nell’animo e nei pensieri dell’altro e questo permette di sviluppare empatia. Il risultato è che si continua a costruire intimità e la relazione diviene sempre più salda e armoniosa.
Ogni coppia dovrebbe prendere giornalmente o almeno settimanalmente un po’ di tempo per sé stessa e per raccontarsi. Un tempo in cui poter essere lievito per la relazione.
 Questo racconto a due voci ed un cuor solo in alcune circostanze può risultare utile anche ad altri. È il caso di chi ascolta delle testimonianze. La storia di una coppia può fungere da stimolo per riflettere su aspetti di sé, su modalità relazionali, può offrire esempi di modi in cui compartecipare a delle scelte o alla soluzione di problemi.
A beneficiare di questa esperienza sono: la coppia stessa, le altre coppie ed i single, soprattutto se single di lunga data o con esperienze deludenti di relazione. La coppia che si racconta riceve feedback e nuovi impulsi per ripensarsi, anche attraverso le domande che le vengono rivolte.
Le coppie che ascoltano possono trovare in questi racconti dal vivo elementi per confrontarsi e per crescere nella relazione. I single possono trovare in queste testimonianze l’occasione di comparare la propria idea di relazione e di amore con quella di qualcun altro, osservare dal vivo differenti modalità di comportamento tra i partner. Spesso questo è utile al fine di chiarire alcuni concetti e preconcetti sulla relazione amorosa, oggi così tanto confusiva se non a volte lesiva dello sviluppo emotivo delle persone.
Possibili equivoci da evitare
Giungere ad una versione unitaria della propria storia di coppia non vuol dire che si tratti di una versione identica e che le differenze sono annullate. Una versione unitaria offre invece l’occasione di accorgersi, esplicitare e tener conto del personale modo di vedere e vivere una situazione da parte di ciascuno. Sarà normale che il racconto del marito si basi su alcuni aspetti mentre quello della moglie su altri, sebbene entrambi possano conoscere quanto appartiene all’altro.

  • Nel raccontarsi agli altri occorre tener presente uno dei principi che guida la relazione di coppia: la sacralità e dunque la custodia dell’intimità. Non esiste un vero confine tra ciò che si può e ciò che non si può dire. Esso dovrebbe essere di volta in volta regolato in base all’accordo reciproco tra i partner, al principio di utilità di ciò che si racconta, di contestualità rispetto al luogo ove si porta la propria testimonianza. La preziosità del dono della propria esperienza di coppia non può essere confusa con il bisogno di far sapere a tutti le proprie cose.
  • Inoltre è sempre importante ricordare di non assurgere la coppia a modello. Un modello si applica tout court, l’esperienza raccontata appartiene alla coppia e necessita di essere filtrata ed adattata alla propria storia personale. Non può essere asetticamente applicata alla propria vita, non calzerebbe. Ed inoltre si rischia di emulare o di non sentirsi mai all’altezza degli altri né mai soggetti attivi della propria vita.


L’essere un noi nella coppia è una tappa che si raggiunge col tempo e con esso si affina anche la capacità di narrare, a sé stessi ed agli altri, di sé come coppia. Questa narrazione, indipendentemente dall’essere invitati a portarla ufficialmente o dal riportarla spontaneamente al vicino di sedia ad un banchetto, ha confini non misurabili. Anche in questa narrazione spontanea di sé come coppia, ogni volta si sta donando qualcosa di sé di molto prezioso di cui quasi mai si sa quali frutti ha portato.

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