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9.10.20

No all’ansia e alla fretta in amore, meglio vivere il tempo presente

Fonte Città Nuova



Ci sono persone single che vivono male la mancanza di una relazione affettiva. L'amore non è una ricerca, ma un incontro.


Molte volte ascoltando i single delle età più disparate si percepisce un rapporto ansiogeno con il tempo e con lo scandire delle fasi della propria vita. Una sorta di inaccettazione di ciò che si sta vivendo e una frenesia di vivere un’altra fase, a volte precorrendo i tempi e confondendo ciò che viene prima con ciò che viene dopo. Si finisce in questo modo per vivere con grande fatica ciò che invece potrebbe essere l’occasione preziosa di incontrare sé stesso, gli altri e le circostanze in quel dato tempo presente così caro alla psicologia e ad ogni orientamento spirituale.

L’abbiamo appurato durante il lockdown, quando dal disorientamento incredulo di quanto stava avvenendo ci siamo dovuti abituare a vivere con ritmi più funzionali al nostro organismo, ricominciando a dare un gusto nuovo al qui ed ora del presente nelle quattro mura. Se siamo riusciti a farlo in quelle condizioni, possiamo continuare a farlo anche in altri momenti.

Il processo in fondo è sempre lo stesso: parte tutto dalla constatazione di un dato di realtà (lo status quo, il cosiddetto qui ed ora) e dalla decisione di accettarlo, accoglierlo così come è. Paradossalmente, fatto questo, ci si può accorgere di quante idee per viverlo bene possono venire in mente. Questa accoglienza di ciò che è rende possibile la trasformazione di un tempo scomodo in qualcosa di prezioso.

Ho conosciuto single disperati per la loro singletudine, che affannosamente cercavano di cambiare la realtà, scordandosi che senza un’alleanza con la vita stessa così come è, si rema faticosamente contro corrente oppure ci si attacca a forme di relazione che quasi sempre non corrispondono ad un amore come lo si desidera. Se proprio occorre impegnarsi, meglio attraversare quelle situazioni da cui si vorrebbe fuggire nel tentativo di cambiare velocemente scenario. Magari è proprio lì che sta aspettando un’esperienza significativa per la propria vita.

Alcuni riempiono di cose belle la loro vita, tutto è pregno di senso e ci stanno bene. Questo può funzionare fintanto che si sia in grado di contattare sé stessi, di prendersi spazi per il silenzio interiore e la solitudine con sé stessi, fintanto che il vuoto tanto temuto da molti, può essere vissuto come un vuoto capace di generare vita interiore. È importante in questa dimensione accogliere le proprie ed altrui parti ombra che possono manifestarsi in forma di pensieri, emozioni o azioni.

Altri ancora li si percepisce arrabbiati, a volte confusi e insoddisfatti. I primi vivono la singletudine come un’ingiustizia, si sentono deprivati di un diritto sociale e spesso sfogano la loro rabbia in relazioni con partner occasionali di cui poco importa se già impegnati: gli sembra così di pareggiare i conti con la vita. Gli altri cercano di assumere un atteggiamento e di mantenerlo in modo statico o viceversa fluttuano in diversi modi di essere. Desiderano rimandare una buona immagine di sé, ma ciò di cui veramente necessiterebbero è di ristabilire un buon contatto con sé stessi e la propria interiorità. In questo modo anche la loro immagine esteriore risulterebbe più stabile e credibile. Anche in questo caso serve la consapevolezza di essere esseri umani e come tali bisognosi anche di supporto.

Accanto a questi troviamo quelli per i quali la vita è come un film. Dato uno stimolo parte un film mentale, che si snoda in mille avventure in grado di colorare il mondo emotivo della persona, ma solo nella fantasia. Questo modo di estraniarsi dalla realtà crea una vera e propria difficoltà a rimanere nel proprio presente, nella consapevolezza di sé, nella capacità di individuare quegli aspetti di sé che devono ancora crescere e maturare affinché si possa realmente incontrare un partner e con questi scegliere di vivere una relazione basata sulla reciprocità.

L’incontro con il futuro coniuge arriva sempre e solo quando le caratteristiche personali dell’una e dell’altro si incontrano in un dato spazio e tempo. Si tratta infatti di un incontro piuttosto che di una ricerca. E il modo migliore di vivere il tempo dell’attesa è proprio quello di prendersi cura di sé, affinché nel momento dell’incontro ciò che si ha da condividere con l’altro sia a misura della relazione che si desidera.

12.6.20

Esiste un tempo giusto per avere un figlio?

 Fonte: Città Nuova


I figli, parte dell’amore e della relazione genitoriale, rappresentano una delle forme classiche di realizzazione della coppia che si apre alla continuità della vita. Quando è il tempo propizio?


Qual è l’età giusta per avere un figlio? Se lo chiedono molte coppie che pospongono questa data a quando: «ci saremo sposati, avrò finito gli studi, avremo una posizione sicura, avremo trovato una collocazione stabile, ecc. ecc». Una sequenza cronologica degli eventi (tempo Kronos) che spesso non corrisponde a quei ritmi interni che invece designiamo con un’altra definizione del tempo: quella del tempo vissuto, ma anche quella del tempo propizio identificato con il concetto di tempo come Kairòs.

Dimensione interna del tempo e dimensione esterna si incrociano, ma che effetto producono nelle persone immerse nella complessità della loro vita tra storia personale, progetti di vita e di coppia?

Marta e Francesco, entrambi sopra i 30 anni, hanno deciso di sposarsi e di sostenersi nel realizzare i loro progetti di vita. L’intensità con cui vivono la loro relazione, le amicizie e la passione per il loro lavoro non genera spazi di pensiero sul loro divenire famiglia. L’occasionale flebile battuta di un genitore sulla possibilità di  renderli nonni non li trova ancora pronti ad approcciarsi a questo tema.

Maria Paola ha conosciuto a 42 anni l’attuale marito, un uomo col quale ha trovato non solo un’intesa di coppia ma anche un equilibrio personale che le mancava. Lui ha 54 anni ed una figlia già grande. Non vuole diventare nuovamente papà, sebbene comprenda il desiderio di Maria Paola di diventare mamma. Lei a sua volta non vuole che il tema tra di loro si basi solo sulla pressione dell’orologio biologico, in fondo non sa neppure se biologicamente sarebbe fattivamente ancora possibile. Interiormente fa i conti con le sue scelte passate, la forte spinta all’indipendenza avuta negli anni e la difficoltà a raggiungere nel tempo una relazione che si fondasse sull’interdipendenza.

Francesca 36 anni ha una relazione con un uomo che le piace molto, di poco più giovane di lei. Spesso si sono scontrati sul tema matrimonio, per lui ancora troppo presto, per lei troppo tardi. Ora che sono sposati vuole dei figli e si percepisce come biologicamente già grande. Non sa cosa la vita potrà riservarle, vede tante amiche che desiderano la gravidanza e non la ottengono, anche più giovani di lei e senza apparenti problemi. Lui teme invece che potrebbero non essere in grado di sostenere tutte le spese che un figlio comporta.

Sandro ha 39 anni ed una carriera avviata. Ha da poco una nuova relazione con Graziella, 4 anni più grande di lui. Quando scopre che Graziella è incinta si sente incastrato, è tutto troppo veloce per lui, e vorrebbe che lei rinunciasse al figlio. Graziella non è d’accordo ed è chiara: con o senza di lui avrà quel figlio. A 43 anni pensa che potrebbe essere la sua unica opportunità di essere mamma.

Cosa hanno in comune queste storie? L’amore e la relazione, quello per cui si è disposti a rimettersi in discussione, a trovare nuove forme di soddisfazione personale anche molto diverse da quelle che si erano fino ad allora pensate. Quell’amore che fa uscire da sé stessi per andare incontro al partner, nel dialogo, ed incontro al figlio nel dono di sé. Ma un amore più diventa intimo e profondo più è in grado di generare legami e paure.

L’autorealizzazione personale, rappresenta il vertice nella “gerarchia dei bisogni” identificati negli anni ’50 dallo psicologo americano Abraham Maslow, attraverso i quali la persona realizza sé stesso. È una conquista della nostra società che per non esprimersi in un limite individualistico deve potersi integrare con gli aspetti socio-relazionali della persona. Bisogni personali e bisogni di coppia possono essere perseguiti insieme solo in un rapporto che si esprima nell’interdipendenza.

I figli, parte dell’amore e della relazione genitoriale, rappresentano una delle forme classiche di realizzazione della coppia che si apre alla continuità della vita. È interessante notare come il loro arrivo non è per tutti uguale. Ci sono coppie dove i figli arrivano secondo un tempo Kronos e ce ne sono altre dove il loro arrivo si inserisce in un tempo Kairòs.

L’accadimento, inteso come fatto che diventa possibile, è infatti legato al tempo propizio, l’unico in cui il “fatto” può essere reso possibile anche per mezzo di una propria compartecipazione. Talvolta giungendo come inatteso e chiedendo una riorganizzazione di vita.

Il tempo e le emozioni. Il tempo Kairòs inteso come tempo vissuto si lega alla fase della vita ed alla maturazione della persona. Per questo porta con se dei connotati emozionali propri di ogni fase di vita che fanno vivere l’attesa come gioia della preparazione, come paura di ciò che potrà accadere, come ansia per il ticchettio dell’orologio biologico o come la possibilità di esplorare vari modi di essere aperti alla vita, famiglia e genitori.

È in questa complessità di elementi che si inscrive un evento così importante che è al contempo naturale e straordinario e che ha una portata molto più grande del semplice atto generativo nella vita di quanti vi partecipano.



21.5.20

Ci siamo detti tutto? La vera comunicazione che fa crescere

 Fonte: Città Nuova


Ogni coppia è in cammino, e solo nel comunicarsi le cose si ha l’opportunità di crescerci dentro insieme. Quando nella coppia non si parla, i silenzi diventano taglienti e sono in grado di fare più rumore e più male di quanto ne facciano le parole


Per alcune coppie la quarantena ha significato prendersi finalmente il tempo per affrontare discorsi lasciati in disparte o interrotti per altre situazioni concomitanti.  Ma siete sicuri di esservi detti proprio tutto?

Dai sassolini nella scarpa da anni, che vi fanno camminare scomodi in due, a quel complimento taciuto perché l’altro in quel momento vi aveva fatto troppo arrabbiare, a quel progetto che avreste voluto realizzare ma che poi a ben pensarci c’erano altre priorità familiari e ci avevate velocemente rinunciato senza cercare una soluzione comune, a quella a volta che di fronte ai parenti non vi eravate sentiti sostenuti e l’altro non aveva frenato un’ingerenza.

Ogni coppia è in cammino, e solo nel comunicarsi le cose si ha l’opportunità di crescerci dentro insieme. Quando nella coppia non si parla, i silenzi diventano taglienti e sono in grado di fare più rumore e più male di quanto ne facciano le parole.

Nel testo della canzone “Fai rumore” di Diodato, vincitrice del Festival di questo anno, l’autore fa dire ai personaggi “non lo so se il tuo rumore mi conviene”. Vale a dire, non so se ciò che hai da dire mi piacerà, se mi farà confrontare con ciò che di me non voglio vedere. Ed anche il dubbio sempre possibile se mi sarà utile per migliorarmi come persona, se va nella direzione del cambiamento possibile legato alla mia persona piuttosto che a quello che tu ti aspetti da me.

Poi il testo prosegue qualche battuta dopo quasi con una supplica “ma fai rumore”, che suona come un non lasciarmi solo ad interpretare questi silenzi, potrei essere un giudice severo con me stesso. Ma anche non togliermi ciò a cui sono abituato, non rompere il gioco di attacchi e recriminazioni su di noi, altrimenti poi dobbiamo guardare le cose in faccia.

Dialoghi ipotetici frequenti tra molte coppie.

A volte la comunicazione nella vita reale è “volutamente” tendenziosa. Questo serve a spostare l’attenzione su altro. Attraverso la comunicazione non verbale si veicolano messaggi di cui il più delle volte siamo inconsapevoli e che sono assolutamente in contrasto con le parole che si stanno usando. È il caso della comunicazione paradossale, in cui nella stessa frase si afferma qualcosa e la si nega. La celebre citazione di una vignetta “Mi piaci così come sei, solo che ti vorrei diverso” ne è un esempio. A qualche livello una parte di noi recepisce l’attacco ma non può rispondere congruentemente se non identifica il doppio livello del messaggio.

In questo caso diventa difficile comprendere su quale canale comunicativo sintonizzarsi, ad esempio un complimento o l’attacco. Le incongruenze possono essere colte solo se almeno uno dei due dialoga senza partecipare ai cosiddetti giochi relazionali, cioè se è consapevole della dinamica che sta avvenendo nella relazione comunicativa. Occorrerebbe inoltre essere in grado di interrompere intenzionalmente queste dinamiche, cioè quelle interazioni ripetitive che si attivano d’abitudine e portano lontano dall’obiettivo dichiarato, il quale a sua volta in questi casi non corrisponde affatto all’obiettivo perseguito.

Quando parliamo all’altro usiamo inoltre quelle che lo psicologo Eric Bern chiama le posizioni esistenziali. Ci relazioniamo all’altro quindi con una concezione della nostra reciproca relazione come paritaria, cioè da adulto ad adulto, o con l’idea che o noi o l’altro siamo ad un livello superiore o inferiore. Questo comporta ruoli stereotipati e vizi di forma nella comunicazione. La verità non può mai essere espressa fino in fondo ed il messaggio non è a supporto della relazione.

Forse se ci ascoltassimo di più e più attentamente riusciremmo a rimodulare alcuni dei modi di comunicare che ostacolano la relazione e con essa la creazione di una relazione sempre più intima.

Ascoltarsi ed ascoltare ci mettono in grado di conoscerci sempre meglio e di co-costruire la relazione nello spazio-tempo di ogni giorno. Ci danno anche gli strumenti per dire con maggiore coerenza quello che pensiamo e che vorremmo, e supportano la crescita vicendevole dei partner. In questo modo il “fai rumore” può diventare una richiesta sincera di essere supportati a crescere interiormente nella verità, nella reciprocità e nel rispetto di ciò che si è.



6.5.20

Innamorati al tempo del Covid 19, la bellezza di ritrovarsi

 Fonte: Città Nuova


Da quando è cominciata la Fase due dell'emergenza Covid 19 è possibile incontrare i fidanzati o comunque le persone amate che erano lontane. Ma, nel frattempo, qualcosa nel rapporto può essere cambiato...


Tipico degli innamorati è la frenesia e il desiderio di rincontrarsi. I minuti che tengono lontani sembrano ore e le ore sembrano giorni, interminabili fintanto che non si è vicini all’altro. Al contrario, quello trascorso insieme è un tempo che scorre veloce. Esso ha una espansione e una densità in cui non ci si riesce mai a spiegare come sia possibile aver fatto o condiviso così tanto in solo un pomeriggio insieme.

Fidanzati e amanti che per circa due mesi si sono ritrovati a rimanere obbligatoriamente separati a causa dell’emergenza coronavirus, per disposizione del decreto del premier Conte, per chiusure dei confini regionali o nazionali (pensiamo a chi vive in stati diversi), per minacce di perdita di lavoro o più semplicemente per non correre rischi se appartenenti o vicini a chi rientra nelle fasce a rischio, possono dal 4 maggio tirare un sospiro di sollievo. La fase due dell’emergenza è cominciata e si può finalmente tornare a vedersi dal vivo.

Questo tanto sospirato momento è capace di appagare il piacere del trovarsi finalmente vicini, ma può rappresentare anche una nuova sfida per la coppia. La tecnologia è stata di grande supporto per accorciare le distanze, per continuare a crescere e sentirsi emotivamente vicini, per abbattere la solitudine. Ritrovarsi vis-à-vis avrà però l’effetto di dirsi come si è cambiatidentro in questo tempo e tornare a sintonizzarsi su una percezione reale, e non filtrata da uno schermo, di come si sta passo passo diventando. Quali desideri, progetti e priorità sono maturati, per confermarsi o rivalutare il piacere del ritrovarsi e dello stare insieme. Anche per dirsi cosa è mancato di più.

Gli innamorati si sa sono campioni in promesse e all’amore spetta il ruolo di mantenerle. Alcune relazioni sono state interrotte in una fase iniziale, altre erano già consolidate, qualcuno era alle soglie del matrimonio che ha dovuto rimandare. Rinnovarsi intenzioni ed emozioni aiuta a fare il punto della situazione, a dirsi quanto si è continuato a camminare l’uno nella direzione dell’altro. Ci sono cose che ad esempio, per l’esperienza di questi mesi, sono passate sullo sfondo ed altre che sbalorditivamente sono venute in luce. Su cosa si fonda l’amore che l’uno prova per l’altro oggi?  

Queste rivalutazioni sono parte del percorso di crescita che le persone fanno come individui dentro alla relazione. Ci sarà qualcuno che vorrà spingere il piede sull’acceleratore per accorciare le distanze e velocizzare progetti come l’andare a vivere insieme o sposarsi. Progetti belli, ma che hanno bisogno di fondarsi sulla misura dell’amore reciproco piuttosto che sul bisogno di accorciare le distanze o di non sentirsi soli.

Poi ci sono le coppie che lontane lo erano già, fisicamente o emotivamente. Alcune di esse potrebbero aver approfittato dei ritmi di vita più lenti per accedere ciascuno al proprio personale mondo interno così da renderlo più accessibile anche all’altro e riscoprendo l’intimità emotivaMentre altre potrebbero aver vissuto male la propria solitudine e innalzato barriere ancora più alte. Ritrovandosi face to face tutto questo viene messo in condivisione con quanto vissuto dall’altro e solo nella dimensione relazionale potrà assumere un senso affinché la coppia se ne prenda cura e lo inglobi nella propria storia, decidendo che ruolo dargli.

Questo tempo di sospensione può essere stato anche un tempo di riflessione e ridecisioni per quelle coppie in cui la relazione non andava molto bene. La lontananza in questi casi è complice e permette quel certo distacco che aiuta a vedere più chiaramente gli aspetti che nella routine difficilmente vengono colti, sia che si tratti di aspetti da rivalutare positivamente sia che si tratti di caratteristiche da soppesare.

Come con tutti gli aspetti della vita a ben guardare l’esperienza del Covid-19, se vissuta cogliendone le occasioni intrinseche, aiuta anche in campo amoroso a mettere a nudo la verità e la profondità sia delle relazioni sia dell’animo umano. A noi ogni volta avere occhi ed orecchie per scorgerle e decidere cosa farne.



14.12.19

Una dipendenza che fa bene

 Fonte: Città Nuova


Spesso si ha il timore che impegnarsi in una relazione coincida col perdere i propri spazi e tempi. Impariamo che esiste un'altra dimensione nello stare insieme a qualcuno, che ha il nome di interdipendenza


La paura di perdere l’indipendenza acquisita rischia di essere fonte di malessere per gli aspiranti partner che desiderano e al contempo temono le relazioni profonde. Questa paura può rappresentare un ostacolo per la relazione ed è esperienza frequente tra molti single adulti che sentono di aver trovato un loro equilibrio. La percezione che essi hanno è che per via della relazione dovranno rinunciare all’impostazione che hanno dato alla loro vita e della quale sono felici. Amici, lavoro, hobby, tempo libero, possibilità di decidere come organizzarsi. In una relazione si sceglie e si programma almeno in due.

Ma è veramente indipendenza quella che hanno raggiunto? O può nascondere tracce di una fase precedente di cui non si parla così tanto? Vediamo come avviene lo sviluppo che va dalla dipendenza all’indipendenza e se oltre questa ci può essere ancora dell’altro.

Dall’infanzia fino all’età adulta si snodano alcune fasi: la dipendenza in cui si ha bisogno di qualcun altro per la soddisfazione dei propri bisogni, è spesso seguita dalla controdipendenza, la cui risoluzione permette di raggiungere l’indipendenza.

Nella controdipendenza la persona ha bisogno di mettere alla prova le sue capacità, la tenuta di un legame, la disponibilità dell’altro ad essergli al fianco indipendentemente dalle sue scelte e dai suoi risultati. Vuole dimostrare a sé stesso, oltre che agli altri, che sa fare da solo, che non ha bisogno di aiuto ma al contempo è ancora emotivamente molto bisognoso di supporto e conferme. Questa fase ha un’alta ambivalenza e dalla sua risoluzione dipende la possibilità di avanzare alla fase successiva dell’indipendenza. Nell’indipendenza la persona si pensa come autonoma, può far fronte ai suoi bisogni materiali, è capace di accogliersi e sostenersi empaticamente, si dà gratificazioni e permessi per ciò che ritiene giusto, sa gestire i suoi limiti e confini, può chiedere aiuto sia perché ne necessità sia perché ha piacere di condividere qualcosa con l’altro. L’antico bisogno di dimostrare qualcosa per mostrarsi responsabile è svanito. Solo a questo punto è possibile una relazione che possa contemplare un partner in cui l’interazione è a un pari livello e in cui i due non dipendono dal reciproco soddisfacimento dei bisogni ma tuttavia hanno piacere di essere l’uno al fianco dell’altro, anche nel momento di bisogno, ma non solo. Questa condizione è detta dell’interdipendenza.

Essa implica la capacità di stare insieme senza confondersi con l’altro e allo stesso tempo contemplandolo nel proprio mondo interno. Nella relazione intima ci si sente mutuamente legati all’altro, si è consapevoli che le proprie decisioni hanno ricadute sull’altro e si è in grado di assumerle tenendo conto dei propri e degli altrui bisogni. Questo coinvolgimento indiretto dell’altro è una responsabilità in più che non può essere gestita né autonomamente né indipendentemente dall’altro. Si rende perciò necessario sviluppare un altro tipo di dialogo e di mutuo riconoscimento tra i partner, di modo di assumere le decisioni.

Ciò che può spaventare è il timore di perdere i vantaggi acquisiti attraverso l’indipendenza e l’autonomia, la paura di affrontare gli aspetti emotivi dell’indipendenza e non da ultimo la preoccupazione che l’interdipendenza possa far riattivare alcuni meccanismi della dipendenza, con la quale condivide alcuni aspetti ma non certamente il background emotivo interno.

Questo timore, se non adeguatamente ascoltato, compreso ed elaborato, rischia di far sedimentare degli equivoci che, poiché ritenuti veri, restano un ostacolo per la costruzione di una relazione. Essi possono ad esempio nascondere retaggi della fase della controdipendenza non ancora risolti.

La relazione intima oscilla per sua natura tra appartenenza e indipendenza. Tanto l’appartenenza, quanto l’interdipendenza hanno qualcosa in comune con l’antica e temuta dipendenza, seppure sono cosa ben diversa da essa.

È molto rassicurante pensare che ogni fase si acquisisce gradualmente e che si tratta di processi che avanzano mano a mano che le circostanze, dentro e fuori della persona, maturano. Niente è assodato in partenza, o ha una data preimpostata. Viceversa per ciascun grado di crescita personale raggiunto si generano in sé nuovi bisogni e nuovi progetti che accendono la miccia per il passaggio a una nuova fase.



4.10.19

Ritrovarsi dopo la separazione

Un movimento di chiusura e uno di apertura per le coppie che vogliono riprendere una relazione dopo una separazione.

Fonte: Città Nuova


Ci sono due movimenti interni a mio avviso importanti che i membri di una coppia che vuole riprendere una relazione dopo una separazione o un divorzio devono tener presenti. Essi sono contrapposti ma ambedue necessari:
  • Il primo ha a che fare con il bisogno di proteggersi per non essere più feriti, e questo è un movimento di chiusura. Esso è naturale, fisiologico e in un’ottica di relazionalità esprime l’accortezza che i partner in una relazione intima devono avere quando si rivolgono l’uno all’altro su tematiche delicate, soprattutto se esse hanno a che fare con la fase precedente di separazione. Ciascuno ha i suoi tempi per curare e far cicatrizzare certe ferite. Come in un percorso graduale, mano a mano che i coniugi si sintonizzano empaticamente l’uno sulle modalità dell’altro, riescono a comprendersi e sostenersi, e la capacità di fidarsi e di ri-affidarsi cresce.
  • Il secondo movimento ha a che fare con la scoperta del nuovo, e questo è un movimento di apertura. Esso è in relazione profonda con la libertà interiore di essere in un ascolto dinamico di sé ed esprimersi con congruenza; con la capacità di esprimere i propri bisogni e vissuti senza strumentalizzarli; con la disponibilità a leggere il nuovo che c’è in sé e nell’altro e con la possibilità che ci si da e che si offre di lasciarsi stupire nel cambiamento. Se si è troppo attaccati all’idea pregressa dell’altro, questo meccanismo si inceppa ed occorre cambiare gli occhiali, o quantomeno pulirne le lenti.
Nel ricominciare la messa in gioco di sé è totale. Emozioni e vissuti riaffiorano quando meno ce lo si aspetta. Il pensiero laterale di cui come esseri umani siamo dotati, ed attraverso il quale possiamo osservare la medesima situazione da più angolazioni contemporaneamente, permette di osservare dalla propria visuale ma anche da quella dell’altro. Contemporaneamente convivono più consapevolezze, il vecchio ed il nuovo si sovrappongono e con essi la paura di un nuovo fallimento e la fiducia che questa volta sarà la volta buona. Districarsi tra esse non è semplice. E proprio per questo molti preferiscono investire in nuove relazioni per non affrontare queste zone d’ombra emotive interne.
L’atto del guardare a sé ed all’altro con categorie “nuove” o “obsolete” è un’attitudine e come tale si può allenare. Nel primo caso si rinforza il processo di cambiamento, nel secondo lo si nega.
Anche la fiducia cresce nella misura in cui si sceglie di farla crescere, essa non cresce da sé. Va da se che l’atto della scelta è un atto importante, che solo se fatto in libertà e consapevolezza può generare la determinazione e la tenacia necessarie a generare un nuovo rapporto ed una nuova empatia relazionale, in cui al contempo si vede nell’altro colui che un tempo ha ferito ma anche colui che oggi soffre.
La relazione che si genera conduce necessariamente ad un livello di relazionalità molto più profonda e dialogica della precedente relazione finita male. L’atto del riscegliersi, nonostante il fallimento precedente è un atto che ha in se un potere rigenerativo. Non a caso molte coppie che si accingono a ricominciare partono da una dimensione di perdono, e si lasciano sostenere in percorsi di psicoterapia di coppia o cammini di condivisione ed autosostegno in piccoli gruppi come Retrouvaille, soprattutto lì dove la ferita è stata più profonda. E si scopre che ciò che un tempo era solo teoria, può essere anche realtà: ovvero che si è in cammino e che sulla strada si è in due.
È interessante notare che tra le statistiche Istat di matrimoni, separazioni e divorzi, non esistano dati anche parziali su chi riprende la relazione precedente. Questo trend così poco indagato finisce (secondo le supposizioni degli avvocati matrimonialisti, di sociologi e psicologi) nel calderone di coloro che ci ripensano per convenienza economica o per la paura del cambiamento, la fatica del ricostruirsi una storia, la solitudine emozionale, una relazione collaterale che non ha mantenuto le sue promesse, ecc. In questo calderone le esperienze, i vissuti, gli intenti, il coraggio di chi sceglie di ricominciare si annullano dietro al bisogno o all’interesse di un tornaconto.
Il ritornare insieme puntando sulla relazione e sul riinnamoramento non può essere una scelta di comodo, anzi, emotivamente è altamente scomodo. È un atto libero di messa in discussione di sé e di ciò che ha portato al fallimento della prima fase della relazione. È un dirsi vogliamo ancora credere nel nostro amore, nella relazione e vicendevolmente in ciascuno di noi. È decidere di scommettere questa volta con l’esperienza e la maturità affinché le cose funzionino affinché si possa dire “Buona la seconda!”

25.7.19

Relazione finita, ma io non volevo (Parte II)



Subire una delusione d’amore o essere lasciati può essere doloroso, ma non è la fine del mondo. Una relazione può concludersi in modi diversi. In alcuni casi, addirittura, non riuscendo a chiuderla, qualcuno spera che sia l’altro a farlo.


I motivi per una chiusura possono essere scomodi da ascoltare e da accettare, non comprensibili sul momento o liberatori. Anche in questo caso il tipo di relazione instaurata, la maturità affettiva dei due, le modalità con cui si da luogo alla comunicazione, possono agevolarne l’accettazione e l’elaborazione.
Se chi lascia assume il peso di una decisione e della sua comunicazione, a chi è lasciato, soprattutto quando la notizia giunge inaspettata, spetta il compito di comprendere e accettare il vero senso di questo distacco.
La prima reazione è di ordine emozionale. Non c’è spiegazione o logica che tenga al dolore, alla delusione, alla sensazione di aver perso un’opportunità. È importante, anche in questo caso, darsi il tempo per esprimere emozioni e pensieri, essere pronti a convivere per un po’ con i propri sbalzi d’umore, prendersi appena possibile del tempo per sé stessi e per elaborare quanto è accaduto.
Atteggiamenti utili ma da dosare sono: l’autovalutazione di sé e della situazione, purché non sfoci in auto-rimprovero e pensieri rimuginanti; creare occasioni di svago con il sostegno di amici, purché non siano solo vie di fuga per non vivere le emozioni e poter maturare nuove consapevolezze; prendere del tempo per sé, purché non significhi evitare le relazioni emotivamente coinvolgenti per paura di soffrire di nuovo.
Ciò che aiuta davvero è rimanere sintonizzati su sé stessi, per vivere ogni fase senza sfociare nei possibili rischi ad essa connessi. Una buona alleata è la libertà interiore, intesa come genuina espressione di sé.
Quando le emozioni cominciano ad acquietarsi, si apre lo spazio-tempo per dare senso a ciò che è avvenuto e riflettere sul senso personale di una relazione d’amore. L’essere in relazione infatti si fonda su alcuni principi. Il primo è che esiste una “noità”, un essere a due e che questo “noi” deve poter funzionare, vicendevolmente.
Secondo la psicologa Grazia Attili le relazioni che funzionano si reggono su due presupposti che intervengono già nella fase di scelta del partner: la similitudine e/o la complementarietà. Ciò significa che non è importante trovare un fidanzato, è importante sapere chi e cosa si sta scegliendo, poiché ne va del proprio benessere e futuro.
Un secondo principio fondante le relazioni d’amore è quello della libertà. «Se ami qualcuno lascialo libero» recita una massima. Un’altra afferma: «Il contrario dell’amore non è l’odio, è il possesso».  In entrambe si ribadisce il ruolo importante che hanno l’azione dello “scegliere” e del lasciar andare.
Certo ci vuole tempo per digerire l’accaduto e per comprendere il vero senso di questo distacco.
Forse può aiutare pensare che nulla viene per nuocere. Piuttosto dal modo come si reagisce all’accaduto si possono scoprire nuovi aspetti di sé, alcuni da mettere in discussione, altri di cui essere fieri. Le relazioni non si chiudono solo perché non si è quella giusta per l’altro, ma anche perché l’altro non è quello giusto per te e viceversa.
Invece di vittimizzarsi per la “perdita subita”, occorrerebbe spostare l’asse su “cosa non ha funzionato?” Così facendo ci si sposta da un “non vado bene” alla comprensione delle differenze caratteriali e del ruolo che giocano, alla consapevolezza di non essersi incontrati nel tempo giusto (differenti livelli di maturità affettiva), o di avere una visione della vita e della progettualità che trova pochi o nulli punti di comunione.
Cosa si può apprendere da una delusione d’amore? Nulla se guardiamo alle cause esterne: “sono sempre sfortunato”, “capitano tutte a me”, “li incontro sempre tutti io quelli strani”. E nemmeno se ci si addossa tutte le colpe. Molto se ci si concentra su di sé e si cerca di essere obiettivi con sé stessi, di fare un bilancio del tipo: ho espresso il meglio di me? Ho ricercato la verità della relazione bandendo i sotterfugi? Che tipo di idea ho perseguito: una persona che colmasse la mia solitudine o insicurezza, un modello che mi facesse fare bella figura o una persona con pregi e difetti con la quale crescere, confrontarmi e progettare?
La risposta a queste domande rivela qualcosa di sé, del modo come si sceglie e della direzione verso cui le scelte orientano. Nel prossimo articolo vedremo come superare una delusione d’amore.

Dr.ssa Antonella Ritacco

Fonte Città Nuova  

19.7.19

La chiusura di una relazione (Parte I)





Come può essere vissuta e superata la chiusura di un rapporto da parte di chi decide e di chi deve prendere atto della situazione.



Decidere di chiudere una relazione è una scelta importante. Se la decisione non è unanime assumerne o portarne il peso può essere gravoso. Inoltre ci sono motivi e modi diversi per porre fine ad una relazione d’amore. Essi dipendono dalla maturità affettiva dei partner e dalle loro modalità caratteriali, dalla profondità relazionale che i due avevano stabilito, dalla durata della relazione e dagli investimenti emotivi e di pensiero che su di essa erano stati riversati.
A riguardo, un aspetto non di poco conto è se la relazione ha seguito quei passaggi che possono far ritenere che effettivamente ci si è spesi per quella relazione e nonostante ciò essa non ha funzionato perché mancano le basi per una intesa comune, oppure se la decisione è presa sulla base di principi ritenuti importanti e che entrano in conflitto con il sentimento che si prova per l’altro.
In questo e nei prossimi articoli tratterò di come può essere vissuta la chiusura sia da parte di chi decide, sia di chi deve prendere atto della situazione, sia di come superare questa fase.
Chiudere una relazione non è mai indolore, anche quando apparentemente la persona sembra reagire bene, molti dei meccanismi che si attuano per sopravvivere emozionalmente al dolore hanno a che fare con la “fuga dal pensiero”. Si decide di investire tempo, energie ed interesse in attività che tengano occupati, cosicché lo spazio per i vissuti emotivi ed i ricordi è limitato. Si tratta di un comportamento del tutto sano e usuale purché non si finisca per annullarsi ed essere strapieno di impegni per non pensare e non provare emozioni. Un campanello d’allarme può essere il temere il tempo libero, temendo che le emozioni tornino a incombere.
È importante darsi il tempo per esprimere le proprie emozioni e pensieri, accogliere i propri sbalzi d’umore, avere del tempo per sé stessi e per comprendere ed elaborare quanto è accaduto. Il confronto con gli altri va bene ma è necessario anche saper dosare e mettere dei confini chiari quando non si ha voglia di parlarne ancora.
L’oscillazione emozionale è piuttosto comune nelle prime settimane dopo la chiusura di una relazione profonda o vissuta con intensità e possono perdurare anche per alcuni mesi. Se invece la relazione era agli esordi o non si era stabilito un rapporto profondo, è possibile supporre che il dolore che si prova abbia a che fare con l’idealizzazione della relazione oppure ad un livello più personale con una possibile ferita narcisistica che comporta un vissuto di fallimento.
Imparare a tollerare l’assenza dell’altro. In questo tempo di passaggio è naturale che si rievochino i ricordi e tra essi sia quelli brutti che quelli belli. Ricordarli entrambi è indice dell’importanza che la persona ha avuto nella propria vita, che si riesce a guardare alla relazione con una certa obiettività e che dunque si può ritenere di aver preso una decisione congruente con sé stessi.
Stoppare pensieri rimuginanti ove presenti. Quando si crea un rimuginio, esso nasconde in genere un’emozione o un bisogno non ancora svelato che sta cercando un modo per essere espresso. La mente ritorna sull’accaduto nel tentativo di chiudere un cerchio, di portare qualcosa a compimento. Può essere che la persona stia cercando ancora di comprendere come gestire il conflitto che si è creato tra un principio da salvaguardare ed il sentimento che prova verso l’altro oppure che sta cercando di fare chiarezza ancora su tutti i motivi che l’hanno condotta a prendere quella decisione.
Anche l’autorimprovero rientra nei pensieri rimuginanti. Le persone dovrebbero ricordare che ciascuno fa ciò che può con le capacità che ha nel preciso momento in cui si trova a vivere quella determinata situazione. Il dopo è un altro tempo ed è naturale vedere le cose con maggiore chiarezza “col senno di poi”. In realtà l’unica occasione che abbiamo da vivere è il tempo presente.
Lasciarsi sostenere nell’apprendere a gestire le proprie emozioni, può non essere sempre facile da accettare sebbene aiuta a recuperare più velocemente un proprio equilibrio. A qualunque figura ci si rivolga, un familiare, un amico o un professionista, la persona dovrebbe imparare a darsi perdono, mollare l’autocontrollo sulle proprie emozioni e ad essere meno perfezionista.
Inoltre sarebbe da tenere sempre presente che se si ravvedono motivi per cui la relazione non funziona, questi hanno la priorità di attenzione rispetto al bisogno/desiderio di essere in coppia.
La relazione ha bisogno di basi solide per poter funzionare nel tempo e la fase del fidanzamento è il momento giusto per sondarle. Pertanto, può essere importante, nei momenti di calo dell’umore, ricordarsi i motivi per cui ci si è separati e cosa veramente si cerca e si vuole da una relazione. Questo non toglie il dolore per l’assenza dell’altro, né valore alle caratteristiche che egli ha, aiuta invece ad autosostenersi nel cammino verso una più chiara definizione di ciò che si è e ciò che si vuole.

Dr.ssa Antonella Ritacco



Fonte Città Nuova


4.7.19

Genitore e single




Prendersi dei momenti di riflessione personali perché la maggior parte delle recriminazioni partono dal non sentirsi capiti, rispettati, supportati.


I motivi per cui ci si ritrova ad essere genitori single possono essere i più svariati. Come per ogni cosa, esistono motivazioni ufficiali, quelle che vanno bene per tutti e ci sono motivazioni più intime e profonde, per nulla immediate, che solo gli interessati possono col tempo arrivare a comprendere.
Qualunque sia la situazione che conduce a crescere un figlio da soli, essa non è mai priva di sfide e di dolori bensì è di una costante rimessa in discussione di sé.
Sono sempre possibili cicliche rivalutazioni della scelta intrapresa o ricordi dei vissuti legati a come essa è avvenuta; si palesano gli effetti sulla relazione con i figli sia per chi è presente sia per chi li vede a ondate; si impongono le difficoltà della vita quotidiana e dei suoi costi, ove a volte anche i beni necessari come un tetto sulla testa diventano proibitivi. La propria ed altrui vita viene rivoluzionata. Come si trasformano le emozioni verso il precedente partner, come si reagisce ai tentativi di riavvicinamento, o quali possono essere i riflessi emozionali davanti alle richieste e velate minacce dei figli che cercano di estorcere un riavvicinamento? Come e quando sono stati innalzati i muri, e dove è iniziato il punto di non ritorno sulle proprie decisioni?
Ogni cuore ha certamente le sue ragioni. Quando si è in interazione con l’altro non è facile comprendere quale parte della persona si attiva, la relazione viene vissuta, non tanto meditata. Per questo è importante prendersi dei momenti di riflessione personale e di coppia per capire cosa succede e come si può attimo per attimo interagire e dialogare.
La maggior parte delle recriminazioni partono dal non sentirsi capiti, rispettati, supportati,ma questo è molto probabile che sia anche il vissuto speculare del proprio partner. Oppure ci si accusa di non valere o fare mai abbastanza, come nei casi in cui si sta amando l’altro ma non nel modo come lui ne avrebbe bisogno.
Il nostro mondo interno è variopinto e non ragiona ma associa. È facile dunque che alcune situazioni ne richiamino altre e senza che la persona se ne accorga si attivino i retaggi di vecchie ferite mai rimarginate del tutto. Se in quei momenti non si è in grado di riconoscere quanto sta avvenendo si genera confusione su sentimenti passati e situazioni attuali.
Per questi motivi prima di chiudere una relazione e prima di iniziarne una nuova è necessario avere chiaro cosa non ha funzionato e quale è la propria parte di responsabilità, quali campanelli d’allarme non sono stati ascoltati e avrebbero dovuto esserlo. Non ha senso ragionare su i “se” ed i “ma”, ha senso imparare a non ripetere gli stessi errori.
Un riavvicinamento è sempre possibile ma chiaramente solo se sono state elaborate e superate le cause che hanno portato alla precedente rottura esso potrà condurre ad esiti diversi.
Con le emozioni non risolte interferiscono anche le continue sollecitazioni, provocazioni o minacce dei figli che chiedono la vicinanza affettiva e fisica dell’altro genitore, che non comprendono i motivi dei “grandi” e che per ottenere i loro tornaconti molto spesso attivano sofisticate strategie di triangolazione.
Rimanere genitore neutro e intellettualmente onesto può non essere sempre facile. Occorre consapevolezza delle proprie decisioni e prontezza nell’assumersene gli effetti, ed avere chiari i limiti ed i confini del ruolo educativo per fare pienamente la propria parte e lasciare spazio all’altro genitore per come egli può esser presente.
Il muro che porta i due ad allontanarsi si costruisce mattoncino dopo mattoncino ogni giorno. Ci si sveglia un giorno che è già finito. Il tragico non è a mio avviso che il muro ora sia lì. Il tragico è che non si sappia neppure come è stato costruito, che si manchi della necessaria comprensione di come si è arrivati a quel punto senza la quale non si può intervenire. È per questo motivo che ritengo che oggi i percorsi di “alfabetizzazione all’amore” siano un abc importantissimo della relazione affettiva adulta e che le coppie dovrebbero rimanere in formazione continua. Due naturali conseguenze sono: la paura per le successive relazioni ed i copioni ripetitivi attraverso i quali si ricercano sempre gli stessi tipi di partner a conferma che «tutti gli uomini/ tutte le donne sono così» ed al fine di non cambiare nulla di sé.
Inoltre se non è facile essere genitore unico, non lo è neppure conciliare con esso il proprio ruolo di donna o di uomo.
Concludo con alcuni interrogativi aperti su cui ritengo sia necessario continuare a riflettere attentamente. Che fine fanno il maschile ed il femminile che c’è in ogni essere umano, in che modo trovano ancora spazio di espressione? Come fare in modo che questi cambiamenti non interferiscano con una nuova dimensione di sé né con il naturale processo di identificazione sessuale che si sviluppa tra genitori e figli? E quando l’altro genitore è veramente assente, chi può supplire alla mancanza della sua figura?

Dr.ssa Antonella Ritacco


Per visualizzare l'articolo pubblicato su Città Nuova on line, nella rubrica #Noidue, clicca sul link qui sotto.
https://www.cittanuova.it/genitore-e-single/ 

6.6.19

Il gioco di equilibri in famiglia



La costruzione e gestione delle relazioni nei nuclei familiari è un allenamento che dura tutta la vita. Servono maturità personale, capacità di ascolto, empatia e piccole regole di buona comunicazione

Ci sono rapporti con le famiglie di provenienza che rendono felici, in cui ciascuno ha spazi personali, può gustare del tempo insieme, andare e ritornare per un senso del piacere, per il desiderio di rivedersi. Questo modello di famiglia non è privo di conflitti, ma nel riconoscimento delle reciproche individualità trova le modalità per farvi fronte.
Accanto a questo prototipo di famiglia si può tracciare un altro profilo, quello delle famiglie in cui le tensioni si respirano, i contrasti sono all’ordine del giorno, gli spazi personali sono invasi o tenuti nascosti, gli allontanamenti sono vissuti come abbandoni e i ritorni sono accompagnati da recriminazioni. In queste circostanze lo svincolo dalla famiglia può essere molto doloroso oppure ostacolato.
Si tratta in genere di situazioni in cui i “non detti” sono utilizzati come minaccia, le situazioni irrisolte sono pesi da addossare agli altri, le frustrazioni personali sono intollerabili. Da un lato si desidererebbe disfarsene ma dall’altra sono essenziali per tenere agganciate le persone, motivare e rafforzare attacchi e rimproveri. Al fine di ottenere un alleggerimento emotivo, la persona utilizza le “scariche emozionali” sotto forma di attacchi, rimproveri, recriminazioni e conflitti. La richiesta di attenzioni non è mai diretta, mentre le attese sul comportamento dell’altro sono alte.
La sofferenza che provano queste persone è grande, così come grande è la loro fragilità interna eppure difficilmente chiedono o accettano un aiuto professionale. L’assenza di riconoscimento e confini personali genera e protrae confusione.
La famiglia non è un’isola. I suoi membri interagiscono costantemente l’un con l’altro e con il mondo esterno. Quando la relazione con uno o più congiunti è difficile, le persone cercano per prima cosa un accomodamento che permetta loro di sopravvivere emotivamente in quel contesto. Quando i conflitti aumentano e seguono un copione conflittuale ripetitivo, le persone per proteggersi utilizzano altre vie: in genere l’isolamento o l’esclusione.
Nell’isolamento la coppia si chiude in sé stessa e limita i contatti con tutti. In questo modo le intrusioni tanto temute non possono più rappresentare un pericolo. Questo isolamento, nel medio e lungo periodo, può creare complicazioni a vari livelli di cui non tratteremo in questa sede.
Nell’esclusione ci si allontana solo da quelle persone che i cui comportamenti sono ritenuti troppo invasivi, lesivi e minacciosi per la stabilità interna della persona e della coppia. Questa scelta può essere considerata definitiva oppure temporanea solo fino a che i comportamenti incriminati non cambiano.
Troppo spesso si tende a dimenticare che ciò che crea un ostacolo non è la persona in sé ma il suo comportamento. Esso ha cause ed origini ma per quanta comprensione si possa avere verso la persona e la sua storia, ciò non toglie che tale modo di fare resta un comportamento problematico che genera soprattutto nella cerchia familiare non poche difficoltà.
Qualunque scelta si prenda, essa è in genere il risultato di una valutazione delle proprie forze (come individuo o come coppia) e capacità del momento di intervenire sulla situazione, di conviverci o di fronteggiarla. Essa è anche in relazione: con la valutazione della consapevolezza che la persona ha del suo comportamento e degli effetti che esso produce, e con la previsione di possibili cambiamenti.
Per chi sente il bisogno di dover prendere distanza da questo tipo di contesto è importante aver presenti quali sono le emozioni che lo accompagneranno (ad es. dolore, rabbia e senso di colpa) e qual è la loro funzione. Una nota speciale merita il senso di colpa. Esso ha una doppia funzione: da un lato serve a mantenere la vicinanza, cosicché nessun cambiamento è possibile, dall’altro è segnale della rabbia interna che in genere i figli o il partner provano per non riuscire ad attuarne uno.
Per chi viene arginato. Queste persone dovrebbero imparare a stabilire connessioni tra le proprie emozioni, pensieri, comportamenti e conseguenze. Affinché ciò sia possibile dovrebbero: smettere di giudicare e giudicarsi, concedere e concedersi permessi esistenziali, e imparare sia a chiedere che ad accettare.
Imparare a gestire la giusta distanza dalle famiglie d’origine richiede consapevolezza, chiarezza e fermezza. Si tratta di un allenamento che dura nel tempo. Ma in casi come questo e con le emozioni sopracitate addosso, questo processo richiede un’attenzione ancora più speciale per evitare che troppo velocemente si reputi l’esclusione definitiva della persona come l’unica e sbrigativa soluzione. Riuscire a comunicare il bene che si vuole alla persona nonostante il dolore e la rabbia che arrecano i comportamenti può non essere facile, tuttavia è importante per restituire a chi si sente ferito da una reazione, un senso integrale di sé.

Per visualizzare l'articolo pubblicato su Città Nuova on line, nella rubrica #Felicemente, clicca sul link qui sotto.
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