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12.6.20

Esiste un tempo giusto per avere un figlio?

 Fonte: Città Nuova


I figli, parte dell’amore e della relazione genitoriale, rappresentano una delle forme classiche di realizzazione della coppia che si apre alla continuità della vita. Quando è il tempo propizio?


Qual è l’età giusta per avere un figlio? Se lo chiedono molte coppie che pospongono questa data a quando: «ci saremo sposati, avrò finito gli studi, avremo una posizione sicura, avremo trovato una collocazione stabile, ecc. ecc». Una sequenza cronologica degli eventi (tempo Kronos) che spesso non corrisponde a quei ritmi interni che invece designiamo con un’altra definizione del tempo: quella del tempo vissuto, ma anche quella del tempo propizio identificato con il concetto di tempo come Kairòs.

Dimensione interna del tempo e dimensione esterna si incrociano, ma che effetto producono nelle persone immerse nella complessità della loro vita tra storia personale, progetti di vita e di coppia?

Marta e Francesco, entrambi sopra i 30 anni, hanno deciso di sposarsi e di sostenersi nel realizzare i loro progetti di vita. L’intensità con cui vivono la loro relazione, le amicizie e la passione per il loro lavoro non genera spazi di pensiero sul loro divenire famiglia. L’occasionale flebile battuta di un genitore sulla possibilità di  renderli nonni non li trova ancora pronti ad approcciarsi a questo tema.

Maria Paola ha conosciuto a 42 anni l’attuale marito, un uomo col quale ha trovato non solo un’intesa di coppia ma anche un equilibrio personale che le mancava. Lui ha 54 anni ed una figlia già grande. Non vuole diventare nuovamente papà, sebbene comprenda il desiderio di Maria Paola di diventare mamma. Lei a sua volta non vuole che il tema tra di loro si basi solo sulla pressione dell’orologio biologico, in fondo non sa neppure se biologicamente sarebbe fattivamente ancora possibile. Interiormente fa i conti con le sue scelte passate, la forte spinta all’indipendenza avuta negli anni e la difficoltà a raggiungere nel tempo una relazione che si fondasse sull’interdipendenza.

Francesca 36 anni ha una relazione con un uomo che le piace molto, di poco più giovane di lei. Spesso si sono scontrati sul tema matrimonio, per lui ancora troppo presto, per lei troppo tardi. Ora che sono sposati vuole dei figli e si percepisce come biologicamente già grande. Non sa cosa la vita potrà riservarle, vede tante amiche che desiderano la gravidanza e non la ottengono, anche più giovani di lei e senza apparenti problemi. Lui teme invece che potrebbero non essere in grado di sostenere tutte le spese che un figlio comporta.

Sandro ha 39 anni ed una carriera avviata. Ha da poco una nuova relazione con Graziella, 4 anni più grande di lui. Quando scopre che Graziella è incinta si sente incastrato, è tutto troppo veloce per lui, e vorrebbe che lei rinunciasse al figlio. Graziella non è d’accordo ed è chiara: con o senza di lui avrà quel figlio. A 43 anni pensa che potrebbe essere la sua unica opportunità di essere mamma.

Cosa hanno in comune queste storie? L’amore e la relazione, quello per cui si è disposti a rimettersi in discussione, a trovare nuove forme di soddisfazione personale anche molto diverse da quelle che si erano fino ad allora pensate. Quell’amore che fa uscire da sé stessi per andare incontro al partner, nel dialogo, ed incontro al figlio nel dono di sé. Ma un amore più diventa intimo e profondo più è in grado di generare legami e paure.

L’autorealizzazione personale, rappresenta il vertice nella “gerarchia dei bisogni” identificati negli anni ’50 dallo psicologo americano Abraham Maslow, attraverso i quali la persona realizza sé stesso. È una conquista della nostra società che per non esprimersi in un limite individualistico deve potersi integrare con gli aspetti socio-relazionali della persona. Bisogni personali e bisogni di coppia possono essere perseguiti insieme solo in un rapporto che si esprima nell’interdipendenza.

I figli, parte dell’amore e della relazione genitoriale, rappresentano una delle forme classiche di realizzazione della coppia che si apre alla continuità della vita. È interessante notare come il loro arrivo non è per tutti uguale. Ci sono coppie dove i figli arrivano secondo un tempo Kronos e ce ne sono altre dove il loro arrivo si inserisce in un tempo Kairòs.

L’accadimento, inteso come fatto che diventa possibile, è infatti legato al tempo propizio, l’unico in cui il “fatto” può essere reso possibile anche per mezzo di una propria compartecipazione. Talvolta giungendo come inatteso e chiedendo una riorganizzazione di vita.

Il tempo e le emozioni. Il tempo Kairòs inteso come tempo vissuto si lega alla fase della vita ed alla maturazione della persona. Per questo porta con se dei connotati emozionali propri di ogni fase di vita che fanno vivere l’attesa come gioia della preparazione, come paura di ciò che potrà accadere, come ansia per il ticchettio dell’orologio biologico o come la possibilità di esplorare vari modi di essere aperti alla vita, famiglia e genitori.

È in questa complessità di elementi che si inscrive un evento così importante che è al contempo naturale e straordinario e che ha una portata molto più grande del semplice atto generativo nella vita di quanti vi partecipano.



6.6.19

Il gioco di equilibri in famiglia



La costruzione e gestione delle relazioni nei nuclei familiari è un allenamento che dura tutta la vita. Servono maturità personale, capacità di ascolto, empatia e piccole regole di buona comunicazione

Ci sono rapporti con le famiglie di provenienza che rendono felici, in cui ciascuno ha spazi personali, può gustare del tempo insieme, andare e ritornare per un senso del piacere, per il desiderio di rivedersi. Questo modello di famiglia non è privo di conflitti, ma nel riconoscimento delle reciproche individualità trova le modalità per farvi fronte.
Accanto a questo prototipo di famiglia si può tracciare un altro profilo, quello delle famiglie in cui le tensioni si respirano, i contrasti sono all’ordine del giorno, gli spazi personali sono invasi o tenuti nascosti, gli allontanamenti sono vissuti come abbandoni e i ritorni sono accompagnati da recriminazioni. In queste circostanze lo svincolo dalla famiglia può essere molto doloroso oppure ostacolato.
Si tratta in genere di situazioni in cui i “non detti” sono utilizzati come minaccia, le situazioni irrisolte sono pesi da addossare agli altri, le frustrazioni personali sono intollerabili. Da un lato si desidererebbe disfarsene ma dall’altra sono essenziali per tenere agganciate le persone, motivare e rafforzare attacchi e rimproveri. Al fine di ottenere un alleggerimento emotivo, la persona utilizza le “scariche emozionali” sotto forma di attacchi, rimproveri, recriminazioni e conflitti. La richiesta di attenzioni non è mai diretta, mentre le attese sul comportamento dell’altro sono alte.
La sofferenza che provano queste persone è grande, così come grande è la loro fragilità interna eppure difficilmente chiedono o accettano un aiuto professionale. L’assenza di riconoscimento e confini personali genera e protrae confusione.
La famiglia non è un’isola. I suoi membri interagiscono costantemente l’un con l’altro e con il mondo esterno. Quando la relazione con uno o più congiunti è difficile, le persone cercano per prima cosa un accomodamento che permetta loro di sopravvivere emotivamente in quel contesto. Quando i conflitti aumentano e seguono un copione conflittuale ripetitivo, le persone per proteggersi utilizzano altre vie: in genere l’isolamento o l’esclusione.
Nell’isolamento la coppia si chiude in sé stessa e limita i contatti con tutti. In questo modo le intrusioni tanto temute non possono più rappresentare un pericolo. Questo isolamento, nel medio e lungo periodo, può creare complicazioni a vari livelli di cui non tratteremo in questa sede.
Nell’esclusione ci si allontana solo da quelle persone che i cui comportamenti sono ritenuti troppo invasivi, lesivi e minacciosi per la stabilità interna della persona e della coppia. Questa scelta può essere considerata definitiva oppure temporanea solo fino a che i comportamenti incriminati non cambiano.
Troppo spesso si tende a dimenticare che ciò che crea un ostacolo non è la persona in sé ma il suo comportamento. Esso ha cause ed origini ma per quanta comprensione si possa avere verso la persona e la sua storia, ciò non toglie che tale modo di fare resta un comportamento problematico che genera soprattutto nella cerchia familiare non poche difficoltà.
Qualunque scelta si prenda, essa è in genere il risultato di una valutazione delle proprie forze (come individuo o come coppia) e capacità del momento di intervenire sulla situazione, di conviverci o di fronteggiarla. Essa è anche in relazione: con la valutazione della consapevolezza che la persona ha del suo comportamento e degli effetti che esso produce, e con la previsione di possibili cambiamenti.
Per chi sente il bisogno di dover prendere distanza da questo tipo di contesto è importante aver presenti quali sono le emozioni che lo accompagneranno (ad es. dolore, rabbia e senso di colpa) e qual è la loro funzione. Una nota speciale merita il senso di colpa. Esso ha una doppia funzione: da un lato serve a mantenere la vicinanza, cosicché nessun cambiamento è possibile, dall’altro è segnale della rabbia interna che in genere i figli o il partner provano per non riuscire ad attuarne uno.
Per chi viene arginato. Queste persone dovrebbero imparare a stabilire connessioni tra le proprie emozioni, pensieri, comportamenti e conseguenze. Affinché ciò sia possibile dovrebbero: smettere di giudicare e giudicarsi, concedere e concedersi permessi esistenziali, e imparare sia a chiedere che ad accettare.
Imparare a gestire la giusta distanza dalle famiglie d’origine richiede consapevolezza, chiarezza e fermezza. Si tratta di un allenamento che dura nel tempo. Ma in casi come questo e con le emozioni sopracitate addosso, questo processo richiede un’attenzione ancora più speciale per evitare che troppo velocemente si reputi l’esclusione definitiva della persona come l’unica e sbrigativa soluzione. Riuscire a comunicare il bene che si vuole alla persona nonostante il dolore e la rabbia che arrecano i comportamenti può non essere facile, tuttavia è importante per restituire a chi si sente ferito da una reazione, un senso integrale di sé.

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https://www.cittanuova.it/gioco-equilibri-famiglia/


20.4.19

Io esisto e ne sono felice!



Cogito ergo sum! Diceva Cartesio ad indicare che dalla consapevolezza di sé origina la possibilità di darsi uno spazio nel mondo

La capacità di pensarsi e di attribuirsi importanza ed esistenza nell’adulto non viene da sé. È una capacità che si acquisisce sin dall’infanzia attraverso la soddisfazione di un bisogno sociorelazionale importante in ogni fase della vita: l’essere visti. Un bambino che è stato e si è sentito “visto” è un bambino che non si sente invisibile. Ciò significa che impara a riconoscere i propri bisogni e le proprie specificità e ha maggiori capacità di riconoscersi una persona degna di valore. Quando questo bisogno viene trascurato, la persona può impiegare lungo tempo prima di riuscire a riconoscerselo. Ne deriva che nelle relazioni che egli vive, costantemente tende a chiedere agli altri conferma di sé e del suo valore o addirittura negarselo in molteplici modi. In questa situazione la persona sperimenta un’immane fatica quotidiana di affermare sé stessa e facilmente rischia di rimanere intrappolata in un “copione” svalutante che si ripete sempre identico a sé stesso anche con persone, luoghi e contesti differenti.
Conquistarsi giorno dopo giorno il diritto di esistere, di essere sé stessi, di dire la propria, la possibilità di chiedere, di scegliere, di prendere ciò che è già suo di diritto possono in taluni casi rappresentare delle sfide. Tutto questo ha molto a che vedere sia con la capacità di essere assertivi sia con l’autostima.
Come superare questi piccoli, medi e grandi ostacoli al diritto di esistere?
  1. È importante per prima cosa riconoscere che nell’età adulta questi diritti negati possono appartenere alla propria costruzione mentale e che dietro di essi non c’è, o non c’è più, un diniego altrui. Questo libera dalla fantasia collerica o punitiva che qualcuno debba avere necessariamente una colpa e permette sia un’assunzione di responsabilità che di avere una funzione attiva nella propria vita. A ciascuno è data, per principio, la capacità e possibilità di pensare, parlare, scegliere, chiedere. Un limite esterno si ha nelle coercizioni, negli altri casi si tratta di limiti interni, di una autoesclusione.
  2. Diventa a questo punto possibile stilare un elenco dei diritti che personalmente non ci si riconosce e di identificare le azioni quotidiane attraverso le quali giorno dopo giorno si può passare da una condizione di “non posso” (divieto) ad un pensiero interno di “posso” (permesso), di “ce la faccio”, fino ad arrivare al “ce l’ho fatta!”.
A cosa fare attenzione? 
Alle ricadute e alle reazioni degli altri.
Le ricadute sono parte del processo, stanno ad indicare che si è in allenamento e che gli schemi vecchi possono ancora interferire con la libera scelta e consapevolezza della persona. Hanno inoltre la funzione di offrire l’occasione di verificare se quanto ci si è proposto è corrispondente alla propria volontà.
La reazione degli altri, di fronte al cambiamento di una persona, può essere di stupore ma anche di freno. In generale quando non si esercitano i propri diritti, si lascia uno spazio libero di cui altri possono usufruire. Chi dunque è abituato ad avere da questo “misconoscimento” maggiori privilegi, prima di comprendere che si tratta di un naturale e giusto riequilibrio, avverte come se questi “privilegi” gli venissero sottratti. Per fare un esempio: un fratello che ha sempre potuto godere delle attenzioni di tutti perché la sorella remissivamente abdicava ad ogni diritto e bisogno cercando di non dare problemi o non emergere, allorquando la sorella comincia a prendere il suo proprio spazio personale e ad affermare la propria identità, potrebbe vedere ristretti i suoi vantaggi ed istintivamente comportarsi come se volesse ostacolarne il progresso. In realtà sta solo cercando di mantenere uno status quo a cui era abituato. L’analogo può accadere anche in altri tipi di relazioni in cui si creano relazioni stereotipate o qualcuno abdica al suo spazio esistenziale.
E naturalmente a ciascuno serve del tempo per orientare il cambiamento, imparare ad utilizzare questi spazi recuperati, saper padroneggiare i propri diritti e volontà ritrovati e raggiungere un nuovo riequilibrio.

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15.3.19

Si può essere single e felici?



Sono varie le ragioni che possono spingere una persona a non cercare una relazione affettiva. In questi casi, è bene che le persone che le sono vicine evitino comportamenti offensivi o intrusivi, restando aperte alle necessità dell'altro.

Le fasi che attraversiamo nella vita e che ci tengono lontano da una relazione sono tante e diverse ed hanno per lo più un carattere temporaneo. Ad esempio si possono vivere fasi in cui si ha bisogno di essere centrati su sé stessi e si percepisce che non si avrebbe l’energia, lo spazio, il tempo e la capacità di dedicarsi ad un’altra persona. In altri momenti non ci si guarda intorno attivamente e non si sente né il desiderio né il bisogno di avere una persona vicinoperché si è molto appagati da ciò che si fa, si ha e/o si è. Lo stesso può valere anche quando non si è ancora scoperto il proprio valore o non ci si sente ancora maturi.
Ci sono persone che sono stabilmente senza partner e tra costoro possiamo distinguere:
  • Coloro che un partner non lo desiderano o non ne sentono il bisogno, seppure investono molte energie nel dedicare attenzione alle relazioni, agli scambi comunicativi, e più in generale, alla persona in quanto tale.
  • Persone che sono state ferite dall’amore, che non riescono a comprendere cosa esso sia fino in fondo, o che per timore di nuocere ad un possibile partner hanno scelto di rimanere da soli.
  • Persone che rifuggono le relazioni che richiedono un coinvolgimento empatico, profondo e costante. Talvolta per specifiche strutture di personalità, talaltra perché restano intrappolate in ruoli e copioni di vita mai fino in fondo compresi.
Come single capita spesso di ascoltare domande ripetute su “Ma quando ci presenti il fidanzato? Ma quando metti la testa a posto? Ecc.”. C’è un immaginario sociale e comune che indirizza alla vita di coppia. Sembra che il tempo poi debba scadere e che altrimenti si resti indefiniti. Attraverso osservazioni di questo tipo si rischia di generare involontariamente ansia e frustrazione. Eppure la persona in questione, sebbene single, può non avere questa percezione di sé, soprattutto quando è giunta ad una elaborazione della propria storia di vita.
Mi colpiva anni fa la lettura di un libro per giovani e un po’ meno giovani in cerca della loro strada “La vita non è un parcheggio” di Roberta Vinerba. Attraverso il testo, l’autrice forniva stimoli di riflessione ad ampio raggio per riflettere e aiutare a fare il punto sul proprio cammino quando ci si sente in una situazione di stallo nella ricerca della personale strada. Questo invito diviene di fondamentale importanza allorquando si rischia di perdere il senso del proprio andare e non si hanno le idee chiare.
Esistono delle eccezioni? E quanto siamo disposti a considerarle? Quale impegnativo cammino di consapevolezza può aiutare a guardare con occhi limpidi e privi di giudizio e di pregiudizi quei single che vivono serenamente il loro status? Aver pienamente compreso la propria storia, raggiungere elevati gradi di maturità e consapevolezza di sé porta inevitabilmenente adesiderare cose grandi. Ogni qualvolta le aspettative ed i criteri sono alti (ma non disgiunti dalla realtà), il sentiero che porta ad incontrare la persona con cui si potrebbe avere maggiore affinità si fa più arduo fino quasi a divenire astratto. La consapevolezza di sé aiuta, motiva, ma non sempre tiene compagnia. È in questi momenti, in cui si fa spazio la solitudine e le osservazioni degli altri si possono più facilmente inserire e fare male, che i single felici giocano le loro carte migliori.
  • La prima tra tutte è la capacità di vivere la solitudine, non temerla, riconoscerla come parte integrante del proprio essere, condizione fondamentale per generare nuove riflessioni su di sé. Per questo motivo ciclicamente la ricercano.
  • Identificano scopi e priorità della loro vita e si danno obiettivi. Hanno compreso chi sono, il loro valore, il valore dell’altro e sono sinceramente interessati ad utilizzare le loro potenzialità.
  • Costruiscono buone reti relazionali e di sostegno sociale. Sanno che non è il numero delle persone che conoscono o incontrano a fare la differenz,a ma il tipo di relazione che con essi hanno instaurato. L’incontro con l’altro è una ricchezza, la relazione è un dono reciproco.
  • Regolano il bilancio tra energie in ingresso ed in uscita così da nutrire le varie componenti del proprio essere (mente, corpo, spirito, affettività e socialità) ed in questo modo sentirsi più in forma e vivere una vita appagata con minori rischi per gli sbalzi d’umore.
Questa condizione si raggiunge per tappe ed implica un percorso di maturità interiore in cui, in varie tappe, il proprio status come single può essere confermato e rivisto. Anche noi come comunità di persone dovremmo imparare ad essere meno intrusivi con le nostre osservazioni e più aperti e disponibili all’ascolto delle altrui esperienze.

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1.3.19

Aiutarsi a crescere



Alcune circostanze della vita possono renderci più vulnerabili e ostacolare lo sviluppo di una maturità affettiva. Qualche consiglio per imparare a superare gli ostacoli.


Parlavamo in un precedente articolo di come in alcune circostanze può essere difficile completare il processo di separazione-individuazione che conclude la fase adolescenziale e conduce all’età adulta. Abbiamo visto come questo mancato completamento lasci dei segni nella capacità delle persone di determinarsi. Vediamo adesso quali possono essere le circostanze della vita che più facilmente possono ostacolare lo sviluppo di una maturità affettiva e quali piste sono possibili per superarle.
In generale possiamo dire che:
  • Si è più vulnerabili quando i genitori vivono poco la relazione di coppia e riversano tutte le loro attenzioni, attese, senso di realizzazione e/o nutrimento socioaffettivo sulla vita dei figli. È il caso di quei genitori che ad esempio hanno sacrificato la loro vita lavorativa per i figli e che nel tempo non hanno sviluppato nuovi interessi. Non è infrequente udire infatti il rimprovero di una figlia “sarebbe stato meglio se mia madre dopo la mia nascita avesse continuato a lavorare invece che rimanere a casa”.
  • Sono più vulnerabili i figli che hanno avuto una malattia di lunga durata o hanno riportato conseguenze da incidenti che hanno richiesto lunghe cure e dedizione. Quando essi guariscono o camminano in direzione dell’autonomia, può essere difficile per il genitore accudente reinventarsi un nuovo ruolo.
  • Una vulnerabilità pari esiste quando è il figlio a crescere con un genitore ammalato. Non è infrequente in questi casi che si verifichi una inversione dei ruoli e che il piccolo debba sviluppare precocemente autonomia e capacità di accudimento abdicando alle sue funzioni di bambino o giovane adulto.
  • In altri casi può accadere che il figlio per svariati motivi sia stato considerato fragile e pertanto sia stato protetto eccessivamente o troppo poco. Sia in un caso che nell’altro il giovane ragazzo non può allenare la capacità di generare soluzioni e attuare azioni che gli facciano sperimentare la sua forza.
  • Sono vulnerabili i figli che hanno creduto di dover strutturare una falsa immagine di sé per compiacere i genitori, e per paura di perdere il loro amore. Essi sentono su di sé richieste ed aspettative, ma non vedono riconosciuti i propri meriti.
  • Sono vulnerabili i figli di genitori che disintegrano l’uno l’immagine dell’altro. Questi attacchi non ledono solo l’immagine dell’altro genitore, ma in primis i figli che hanno bisogno e diritto di identificarsi con gli aspetti sani del genitore e di continuare a relazionarsi con lui. A risentirne è anche l’immagine interiorizzata dell’altro sesso, per cui sovente in questi casi i giovani sperimentano una grande difficoltà a mettersi in gioco nelle relazioni amorose.
A partire da queste situazioni possono generarsi alla lunga sentimenti di sfiducia, risentimento, rabbia e distacco difficili da gestire anche a distanza di anni. Essi possono condurre in alcuni casi ad allontanamenti temporanei o definitivi dalle famiglie di origine, che appaiono l’unico modo per continuare a sopravvivere.
Nella maggior parte dei casi si cerca invece un “aggiustamento”. In questo accomodamento alcuni diventano compiacenti fino a permettere al genitore di orientare le proprie scelte. Altri traggono beneficio dal confronto con i pari e il mondo esterno, scoprono che esistono altri modi di relazionarsi nella coppia, che i genitori possono occuparsi dei figli in modi diversi e possono sbagliare anche loro, e cosa ben più importante: che la crescita personale e l’autonomia sono traguardi da raggiungere non condizioni di fatto concesse da altri. È in questi casi che raccolgono tutta la loro forza e motivazione e spiccano il volo, a volte in modo diretto, altre volte lasciandosi sostenere da un professionista.
Ci sono errori che malgrado le buone intenzioni si ripetono nelle generazioni. Questo avviene principalmente quando il problema non è stato identificato o sufficientemente compreso o le persone non hanno gli strumenti per risolverlo e fanno fatica a chiedere aiuto. Rileggere la propria storia non più solo a partire dai propri vissuti, ma tenendo conto della complessità delle circostanze in cui essa si è manifestata, permette di rielaborare la propria vita. Permette anche di aprirsi alle numerose possibilità di evoluzione di una situazione che, come ci mostrano numerose biografie, sono sempre possibili a partire dalle proprie scelte.

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